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martedì 24 novembre 2015

"Antonio. Punto e a capo!" - sedicesimo capitolo


UN REGALO A SORPRESA
  

Quando sono tornato a casa, ho trovato sulla mia scrivania un quadernone con la copertina celeste e con delle api gialle: avevano gli occhietti vispi e simpatici.

Sopra c’era un bigliettino di babbo e mamma:

Dato che è da un po’ di tempo che è difficile parlare con te, abbiamo pensato di regalarti questo quadernone: potresti scriverci i tuoi pensieri, cosa c’è che non va e tutto quello che invece ti rende felice. Come fosse un tuo personale totem della felicità … Crescere vuol dire anche imparare a confrontarsi con problemi diversi. L’importante è fare sempre le cose con amore. Forse alla fine di ogni giornata potresti trovare il senso di tutto quello che ti è successo scrivendo: “Oggi ho imparato che …” e aggiungendo una tua personale riflessione, acuta e pungente come le api raffigurate sul quadernone! Speriamo che questa idea ti piaccia!

Ti vogliamo bene, Babbo e Mamma.

Ho pensato che il biglietto mi aveva:

a)  fatto piacere

b) imbarazzato

c)  complicato per un momento la vita, perché non sapevo se dovevo dire qualcosa o fare finta di niente a cena.

Ho aperto il quaderno e ho scritto:

OGGI HO IMPARATO CHE A VOLTE LE SORPRESE TI FANNO PIACERE, MA TI CREANO ULTERIORI PROBLEMI CHE PRIMA NON AVEVI …

Beh, non era molto acuta come riflessione, ma per iniziare andava bene ... Rimanendo a fissare il foglio, mi sono venuti alla mente mille altri pensieri confusi, che mi hanno riempito il cervello … come quando guardi le onde del mare e provi a contarle, ma alla fine non ne puoi più, perché sono interminabili … e nonostante tutto, sentivo che qualcosa d’importante continuava a sfuggirmi, non voleva farsi acchiappare … fissando i quadretti del quadernone, mi è venuta alla mente un’immagine: quella di me e Gennaro in riva al mare, l’estate scorsa. Una domenica ero andato al mare con la mia famiglia e Gennaro era venuto con noi. Ricordo com’eravamo felici di poter passare un intero giorno insieme, e durante tutto il viaggio avevamo cantato ininterrottamente e raccontato un sacco di barzellette. Le risate riempivano l’abitacolo della macchina … Appena arrivati sulla spiaggia, eravamo andati a riva, a caccia di conchiglie. Cercavamo di prenderne una che avevamo intravisto e che ci sembrava bellissima, ma tutte le volte l’onda era più veloce di noi, e non riuscivamo ad afferrarla: la sabbia la nascondeva, poi quando l’onda si ritirava, la scorgevamo di nuovo che si rotolava sospinta nell’acqua. La seguivamo affannosamente con gli occhi per non perderla, ma quando tuffavamo la mano, l’onda era di nuovo tornata a rimescolare tutto … affondavamo le mani nella sabbia, alla cieca, ma nelle nostre mani restavano solo piccoli sassolini e conchigliette … Alla fine io e Gennaro l’avevamo presa, tuffando le mani nello stesso punto. Avevamo diviso la conchiglia ambita, spezzandola, e ognuno di noi la custodiva appesa a un filo attaccato al letto. Eccola lì, infatti, adagiata come sempre alla spalliera ...


Finalmente la confusione nel mio cervello svanisce. Come se qualcuno avesse soffiato via una polvere, adesso vedo chiaramente cosa c’è che non va. Riprendo la penna in mano e senza pensare scrivo:

OGGI HO IMPARATO CHE GENNARO MI MANCA, ANCHE SE FACCIO FINTA DI NIENTE CON TUTTI, PERFINO CON ME STESSO. E CHE L’ATLETICA NON MI PIACE PIÙ E NON CI VOGLIO PIÙ ANDARE, ANCHE SE SONO BRAVO. MA CHI SE NE IMPORTA SE SONO BRAVO SE NON MI DIVERTO PIÙ? E POI, HO PAURA DI RESTARE SOLO. E PAURA CHE NON AVRÒ MAI PIÙ UN AMICO COME GENNARO. E VORREI AVERE PASSIONE PER UN ALTRO SPORT ED ESSERE BRAVO, MA NON SO QUALE SPORT POTREI FARE E POI VORREI ANCHE CHE IO E GENNARO FOSSIMO DI NUOVO AMICI, MA ORMAI SONO PASSATI COSÌ TANTI GIORNI CHE HO PAURA CHE LUI A QUESTO PUNTO NON VOGLIA PIÙ E

- Antonio! Vieni a tavola: si mangia!

Vedo la testa della mamma che fa capolino dalla porta. Il suo sguardo si posa sulla scrivania e sul quadernone aperto, ma fa finta di niente e distoglie subito lo sguardo.

- Arrivo! - le rispondo, affrettandomi a chiudere il quaderno. Poi mi alzo e le appioppo un abbraccione, che spero le faccia capire che sono contento del regalo. Lei mi risponde con una strizzatona da “attacco spaziale”, come la chiamiamo noi.

- Andiamo, che si fredda tutto sennò.

 

martedì 17 novembre 2015

"Antonio. Punto e a capo!" - quindicesimo capitolo


IL SEGRETO DI STEFANO

 
- Antonio! Hai visto che ore sono? Farai tardi ad atletica se non ti sbrighi … lo sai quanto è severo il mister sulla puntualità!

- Uhm … oggi non ci vado, mamma.

- Stai male? –mi chiede aggrottando la fronte preoccupata.

- No.

- E allora? Come mai non vai?

- Non mi va.

- Come non ti va? Ma se prima ci andavi anche con il raffreddore!

- Uffa quante storie! Non mi va e basta! Mica è obbligatorio! – ho risposto quasi urlando.

- Calmo eh? - interviene il babbo severamente, che per l’appunto è a casa con l’influenza – ti sembra il modo di rispondere alla mamma? Fra una storia e un'altra è più di un mese che ci vai una volta sì e tre no …. Credevamo ti piacesse fare atletica. Hai vinto sempre nelle ultime gare!

- Appunto … magari è proprio per quello – rispondo svogliato.

- Che vuoi dire?

- Non lo so.

- Certe volte, Antonio, non è facile parlare con te – risponde il babbo scuotendo la testa in segno di sconforto - bisogna tirarti fuori le parole di bocca con il cavatappi. Nessun problema se non ci vuoi andare, solo sembri un po’ demotivato e strano.

- Sono stanco

- Problemi?

- Sì, troppi: di matematica – rispondo eludendo la domanda, e il babbo alza gli occhi al cielo spazientito.

- Però sono migliorato con l’aiuto di Stefano, vero? Quasi quasi faccio un salto da lui per controllare i compiti per domani.

- Chiamalo prima, potrebbe essere uscito – interviene la mamma, deponendo per il momento le armi.

- Sì, figuriamoci! Per andare dove? Lui non ha amici. Studia sempre. E’ per questo che è il migliore della classe.

- Dove vai con il giubbotto Antonio? Vengo anch’io con te? Oggi il cappello, però, non me lo metto – mi fa Clotilde raggiungendomi alla porta di casa e porgendomi il suo giubbottino.

- No Clo. Vado solo io fuori. Tu stai in casa. Sei malata.

- Non ce l’ho più la febbre. Voglio venire con te.

- Ma io vado da un mio amico, a studiare.

Lei allora fa la faccetta triste e così la prendo in braccio, dondolando pericolosamente: in fin dei conti sono più di quindici chili di bambina!

- Ti prometto che torno presto … e dopo giochiamo! E mentre sono fuori non fare più a pezzi i miei giornalini, va bene? - le sussurro.

- Va bene - mi fa sgranando gli occhioni con un guizzo impertinente – uno sì, però … ritaglio quello vecchio!

 

Volo giù per le scale a rotta di collo, come dice la nonna Dibra. In un attimo sono in strada e, non so perché, mi viene spontaneo respirare a pieni polmoni. Aria di libertà. Non per niente, ma a volte non hai voglia di star lì a scandagliare tutto quello che senti. Però i miei hanno ragione. Ultimamente ad atletica vado davvero forte, eppure sembra che non me ne importi più niente. Anche mentre gareggio, non sento più l’adrenalina di un tempo. E pensare che il mister l’altro giorno mi ha pure fatto i complimenti. “Bravo Antonio. Sei finalmente riuscito a lasciar fuori quell’ansia che t’impediva di dare il meglio. Adesso, quando gareggi, sembri un professionista: lucido, concentrato. Sei cresciuto, ragazzo” – ha concluso con aria soddisfatta. Sì, concentrato sì, ma distaccato. La testa è lì, ma il cuore è da un’altra parte. Solo non so dove. Non è vero che ho lasciato fuori la parte emotiva di me, è solo che lo spazio per la parte emotiva … non c’è più. E non so perché. Eppure un tempo mi piaceva. Magari è tutta colpa di quello che è successo con Gennaro, penso mentre continuo a prendere a calci il solito sasso che mi sto portando dietro da un po’.

Eccoci qui. Casa di Stefano. Passare da questa strada rende il tragitto più lungo, ma più sicuro: mica ho voglia di fare di nuovo brutti incontri davanti alle scuole medie. Quei tipi potrebbero essere lì anche stasera e di riprenderle non ne ho punta voglia.

- Chi è? – mi fa una voce da dietro la siepe.

- Buonasera. Sono Antonio, un amico di Stefano.

- Stefano non c’è.

- Ah … - rispondo un po’ deluso.

- Vuoi entrare comunque? – mi fa la voce. E intanto fa capolino dall’inferriata anche il viso di un uomo con un gran cappello in testa, che tiene in mano una sega circolare

– Sono il giardiniere, Narciso …

- Basso e indeciso – penso, senza osare pronunciare quella che mi pare la spiritosaggine del secolo – beh, il suo nome calza a pennello col suo lavoro …

- Direi di sì – fa lui, con la faccia di chi è abituato a sentirsi dire certe cose - Allora che fai? Entri o no?

- No, grazie. Volevo solo riguardare il problema di matematica per domani.

- Beh, allora puoi raggiungerlo in biblioteca. Va sempre lì a studiare dopo che ha fatto la sua ora di lettura. Fra una mezz’ora dovresti trovarlo.

- Che ora di lettura?

Per tutta risposta si è limitato ad alzare le spalle arrovesciando in giù la bocca, come a dire che non sapeva altro. Veramente avevo il permesso di andare solo a casa di Stefano e non di andarmene a girellare da solo allegramente. Ma dato che la biblioteca non era molto lontana da lì, ho deciso che un salto avrei anche potuto farcelo. La strada la conosco bene, perché è vicina alla mia scuola e poi perché ci sono stato tante volte con la mamma e Clotilde.

 

La biblioteca è in un bel palazzo, dove ci sono anche un sacco di uffici, la succursale del liceo linguistico e un istituto per non vedenti. Mentre camminavo nei corridoi che portano alla biblioteca, sono passato davanti ad una porta, dove ho sentito la voce di un ragazzino che leggeva ad alta voce. Mi sono soffermato un attimo, perché leggeva davvero bene, caratterizzando le voci dei personaggi. Mi sono domandato cosa mai potesse esserci dietro quella porta, così ho tirato su la testa e ho letto la targhetta in ottone:


IL LIBRO RECITATO
 
 

 

 


Dato che non passava nessuno, sono rimasto lì dietro ancora un po’, ad ascoltare, e via via che la voce leggeva, mi pareva sempre più di riconoscerla come quella di Stefano. Così non ho saputo resistere: ho abbassato la maniglia piano piano, con circospezione, e sono entrato. Stefano era in piedi nella stanza, ma non poteva vedermi, perché era di schiena. Un uomo che sedeva dietro un banco mi ha fatto segno di rimanere in silenzio. Io mi sono seduto per terra, con la schiena contro il muro, abbracciandomi le gambe. Stefano era senza maglione, con la camicia con le maniche arrotolate e, mentre leggeva, non poteva fare a meno di gesticolare, come stesse recitando in teatro. Nella stanza, sul lato opposto, c’erano tre ragazzi e una ragazza, che ascoltavano come me, seduti su delle sedie, a occhi chiusi e in vari punti si sganasciavano talmente tanto dalle risate da coprire quasi la voce di Stefano.

Quando ha finito di leggere il capitolo, ha fatto un cenno all’uomo dietro il banco, così quello si è affrettato a dire:

– Ok ragazzi, tempo scaduto … torniamo in classe e ringraziamo come sempre il nostro amico.

A quel punto si è alzato un coro di proteste.

“No, ma come?” “ E’ già passata un’ora? Non si può fare un altro pochino?” “Dai, magari solo qualche altra pagina …”

- Niente da fare ragazzi. Purtroppo dobbiamo andare ed anche Stefano ha i suoi compiti per domani, no?

- Beh, sì, però se volete …

- Ci piacerebbe, ma non possiamo. Alla prossima settimana, Stefano.

Così si sono alzati e ognuno di loro ha preso un bastone bianco e solo allora ho capito che quei ragazzi non vedevano. Guidati dalla voce di Stefano, che stava ancora scambiando qualche battuta con quel signore, gli si sono fatti tutti intorno per dargli chi una pacca sulla schiena, una stretta al braccio, una carezza sul viso. Ognuno di loro l’ha toccato salutandolo.

- Credo ci sia un amico per te – gli ha fatto uno mentre usciva e mi passava accanto – è entrato prima, mentre leggevi ….

Così Stefano si è finalmente voltato ed è rimasto a guardarmi fra il sorpreso e l’infastidito. Ha afferrato il suo golf e il suo zaino e mi ha strattonato fuori.

- Che vuoi? – mi ha apostrofato non appena siamo usciti – mi stai spiando?

- Ma che spiando! Ero solo venuto a cercarti e sono passato da qui … ho sentito la tua voce e sono entrato a vedere. Sei forte a leggere! Sembri un attore! Ma perché non mi avevi detto niente? Per quei ragazzi sei un mito! – gli ho detto con entusiasmo.

- Appunto – ha risposto lui, asciutto.

- Che vuoi dire?

Per tutta risposta ha fatto spallucce e dopo, mentre si risistemava un po’, ha proseguito - Dai, non importa … è solo che mi scoccia. Questa è una cosa mia, capisci? Questo sarebbe proprio come dovrebbe essere se solo …

Ho fatto un movimento con la testa per invitarlo a continuare.

- … se solo non fossi così brutto e … unto!

Questo è il classico caso in cui in teoria dovresti dire qualcosa d’incoraggiante, ma sai già che le tue parole non uscirebbero convincenti. In fondo Stefano è davvero unto e insomma, non proprio bello, ecco. Così sono rimasto zitto.

- Che incoraggiamento! Grazie davvero! Il tuo mutismo dimostra solo che ho ragione - ha fatto lui sarcastico.

- Beh, che ti devo dire … mamma dice che il tuo non è unto: è sebo … prima o poi se ne andrà, basta crescere.

- Non mi preoccupa il prima o poi, mi preoccupa il “frattempo”.

- Nel frattempo sei intelligente … e simpatico … anche se non molti se ne accorgono in classe, perché stai sempre sulle tue – mentre parlo, gli rivolgo una sbirciatina di sottecchi per vedere come la sta prendendo, ma le parole ormai mi escono da sole, senza che possa fermarle - e poi sei così bravo che gli altri si sentono un po’ inferiori, e se la prendono con te …

- Fantastico!

- Invece questi ragazzi qui sono diversi: loro ti vogliono bene. Si capisce, perché tu sei completamente aperto verso di loro, sei solo quello che sei.

- Il punto è che loro non mi vedono… e quindi non mi giudicano per i miei capelli unti, ma solo per quello che sentono, per quello che credono che io sia. Sai che direbbe il mio babbo? Il loro giudizio non è viziato dal mio aspetto.

All’improvviso, senza rendermene conto, solo parlando, ho capito che quei ragazzi del libro parlato avrebbero amato in modo uguale Stefano, anche se avessero potuto vederlo, e che era il giudizio di Stefano a essere viziato, per dirla come l’avrebbe detta il principe rospo … beh, senza offesa, s’intende. Il problema non erano solo i suoi capelli unti, ma anche il suo atteggiamento in classe. Era vero che suggeriva, che faceva copiare i compiti, e che nonostante tutto continuavano a chiamarlo “untore”, ma era vero anche che lui non era mai spontaneo in classe come l’avevo visto poco prima con quei ragazzi, che per paura di essere rifiutato non si mischiava mai a noi nell’intervallo. Certo, era colpa anche nostra, e avrebbe dovuto avere un gran fegato per riderci su con noi quando qualcuno faceva battute su di lui. Però averlo visto prima mi aveva fatto fare un bang nella testa: prima sembrava un altro. Il suo atteggiamento, la sua voce, anche il modo di stare in piedi e di gesticolare faceva capire che era davvero un tipo tosto e che se si fosse mostrato così anche a scuola, avrebbero smesso di dargli noia.

- Oh! Ti sei addormentato?

- No … sai, pensavo che magari è colpa tua se a scuola non sei popolare. E’ la tua testa per prima che devi cambiare … devi solo farti conoscere, ecco. Così come ora ti conosco io.  

- Ora alla fine stai a vedere che è colpa mia! Certo che sei proprio forte! Come se non sapessi che Tommaso fa circolare in classe i suoi fumetti: “le mirabolanti avventure dell’Untore e Scordinello” ... li hai letti pure tu, credi non lo sappia?

- Già. E ti dico pure una cosa: sono divertenti. Perché Tommaso disegna benissimo e ti ha fatto un costume da eroe niente male … perché in quei fumetti, sarai pure l’untore, ma sei un personaggio positivo. E se li avessi letti anche tu, come li ha letti Scordinello, ops ... Marco intendo, ti saresti divertito! Qui sta la differenza: Marco ci ha riso su e anche se lo chiamano con quel soprannome, tutti lo ammirano comunque, perché quando gioca a basket sembra che voli quando va a canestro … solo che mentre cammina normalmente sembra scoordinato. E’ un difetto, ma solo perché è molto alto e magro e credo ancora non abbia trovato dove mettere quel chilometro di gambe che si ritrova. Scusa se non te l’ho detto prima, ma ci ho pensato solo ora. E’ stato un flash. Ciao.

E’ solo quando sto per uscire dall’edificio, nell’atrio grande del portiere, che sento che Stefano mi richiama.

- Antonio! Ma dove vai? E poi, perché sei venuto a cercarmi?

- Lascia perdere Stefano, bisogna che scappi: è tardi. – rispondo senza voltarmi - E quel ”bisogna che” mi segue fino a casa, martellandomi nella testa e ricordandomi la tipica espressione che usa Gennaro. Ma perché mi sarà venuto in mente?

domenica 1 novembre 2015

"Antonio. Punto e a capo!" - quattordicesimo capitolo


ANCORA LEI?!

 
Stamani, come tutte le mattine ormai, sono sgattaiolato il più velocemente possibile in classe per non incontrare Gennaro nei corridoi. Come se fosse colpa mia, poi, tutto quello che è successo! Dovrebbe essere lui a nascondersi, e invece va a finire che sono io che scappo! Comunque ho deciso che diventerò davvero amico di Stefano, almeno la finirà di passare la ricreazione in classe a leggere libri. Da oggi, più che mai, dopo la giornata passata insieme ieri, rappresento il suo ponte per arrivare ai nostri compagni di classe. Già … ma se poi va a finire che cominciano a prendere in giro anche me? Se cominciamo a stare sempre insieme, può essere che alla fine ricominceranno a bersagliarmi per via dei miei capelli: ci pensi che coppia?! Unti lui e rossi io, alé. Se la mamma potesse leggermi nel pensiero, sicuramente rimarrebbe male. Lei è convinta che tutte le persone che incontriamo possano arricchire una parte di noi, e non c’è da preoccuparsi di ciò che pensa la gente, soprattutto quando è stupida, gretta e … com’è che dice? Ah, ignorante. Ma sì, sfodererò una sicurezza olimpionica e farò il naturale. Dopotutto Stefano non è per niente antipatico. Mica è colpa sua se è intelligente!

- Ciao Antonio – mi fa Stefano non appena mi avvicino al nostro banco, alzando appena gli occhi.

-’Giorno Ste – gli rispondo lanciando lo zaino sotto il banco.

- Vuoi che riguardiamo il problema insieme prima che inizi la lezione? – fa lui, levandosi gli occhiali e iniziando a pulire le lenti - o ti scoccia e in classe continui a stare con i tuoi amici di prima? – mi chiede abbassando un po’ la voce – perché se è così, non c’è problema, eh, ti capisco. Non dev’essere facile essere il compagno di banco dell’untore … - conclude cercando di sorridere e di far vedere che a lui non importa. Di solito sarei andato a fare due chiacchiere sul calcio con Leonardo o a fare qualche scambio di figurine, ma dopo questo inizio non ci penso nemmeno.

- Ma che stai dicendo? Io ero tuo amico anche prima, solo che con Leonardo e gli altri ci conosciamo da più tempo: tu sei in classe nostra solo da quest’anno.

- Uhm … - mugugna lui con aria scettica -farò finta di crederci … qui dentro non c’è nessuno che dall’inizio dell’anno abbia parlato con me più di dieci minuti o mi abbia chiesto di vederci fuori … beh, eccetto Marco … forse l’unico adatto a stare con me perché, come dite voi, cammina come un cammello …

Beh, e ora cosa rispondo? Secondo la classe, in generale, è proprio così. Avevo sentito un sacco di battute su quei due. Però Marco è comunque dei nostri, anche se lo prendono in giro perché sembra scoordinato per via dell’altezza e non vincerà mai il titolo di mister mondo … però è simpatico, gioca bene a basket e a lui non importa molto quello che dicono su di lui, o almeno così sembra …

- Comunque io non ti ho mai chiamato untore … e chi lo fa, è uno stupido! E quanto a Marco, quando giochiamo a basket all’ora di educazione fisica, farebbero tutti a botte pur di averlo in squadra!

Lui rimane zitto, serrando la bocca, e non risponde niente.

- Meglio pensare a riguardare il problema, dai – gli dico scrollando le spalle - Però ti avverto, eh? Un po’ ero stanco, un po’ mia sorella mi stava fra i piedi, un po’ mica avevo tanta voglia ….

- Va bene, dai, vediamo che hai combinato: mica devi stare a giustificarti, eh? Non sono la maestra! - fa allora lui e già mi sembra più rilassato.

Così abbiamo riguardato il problema, che avevo ovviamente sbagliato, anche se Stefano è stato gentile e ha detto che forse aveva esagerato a volermi far fare quell’esercizio in più.

Quando finalmente siamo usciti da scuola, neanche a farlo apposta, ho intravisto Gennaro e i nostri sguardi si sono incrociati per un momento, fra la confusione dei ragazzi. Mi è sembrato che la sua espressione contenesse una domanda del tipo: “E allora Anto’, come la mettiamo? Facciamo pace?” Ma quando l’ho ricercato con lo sguardo, lui era già sparito. Mentre mi avviavo verso casa, una bici mi è sfrecciata accanto a tutta velocità e, subito dopo avermi sorpassato, ha tirato un’inchiodata. Non ho potuto fare a meno di voltarmi. La strada era bagnata, la ruota davanti ha sbandato e la tipa ha fatto un bel volo per terra.

- Urca che botta! – ha esclamato, mentre le volava via il cappello e il suo zaino si rovesciava, facendo cadere rovinosamente tutti i libri e i quaderni in una pozza. Mi sono avvicinato per aiutarla e l’ho riconosciuta. Ecco perché il cappello le era volato via: con quella massa di capelli lanosi stile rasta, ci sarebbe voluto un cappello da elefante per contenerli!

- Accidenti a te caccoletta! – ha esordito, controllandosi il ginocchio – è tutto il giorno che ti cerco. Dove diavolo ti eri cacciato?

- Come scusa?

- Come scusa? – mi ha rifatto il verso con la bocca arricciata – din don … buongiorno! Sei sveglio? Ho detto che è tutto il giorno che ti cerco. Pensavo andassi alla succursale delle medie, e ho fatto diecimila giri prima di pensare che forse eri ancora alle elementari … puah, che pivello! Uhm … però sei alto per la tua età … mica sarai ripetente? Oddio, un po’ doddo sei, però …

- Hai finito o ti sei incantata? – ho cominciato con rabbia, dopo essere stato investito dalle sue chiacchiere – E così sarei doddo, eh? No dico, ma ti sei vista che in che condizioni vai a giro? Con questi capelli assurdi e tutta vestita di nero, con tutti questi braccialetti di gomma … ah … faccio guardando la roba che lei intanto sta rimettendo nello zaino e notando un pacchetto di sigarette – fumi pure … alla tua età, pensa un po’ da chi mi devo sentir dire che sono doddo! Puah! Chissà che saporaccio hai in bocca!

- Ok ok pivello, sembri la fotocopia di mia mamma … peace, va bene? – dice mostrandomi il dito indice e medio a forma di V ed esagerando un sorrisone. - Comunque le siga non sono mie, sono di quel tonto che ti ha fregato i soldi …

- Ah, già, il tuo ragazzo … complimenti per la scelta! Scommetto che tua mamma ne è felice! – le dico in tono ironico.

- Ex ragazzo, please … l’ho mollato quello scemo. Ci stavo solo per fare rabbia a mia madre … - Poi mi dà un’occhiata da sotto in su, davvero storta.

- Ero solo venuta a riportarti questi, ma forse ho fatto male: sei un astioso insopportabile… - e così dicendo tira fuori dalla tasca del giubbotto cinque euro e me li mette in mano. - Li ho recuperati per te e volevo renderteli …-

- Ah, io …- ho risposto, non riuscendo a trovare le parole. Improvvisamente mi ha spiazzato: dopo quel suo tono superiore, ti viene fuori con un gesto così giusto … e poi come ha fatto a recuperarli da quel mastino? Sembra leggermi nel pensiero.

- Oh, non stare a preoccuparti, è stato un gioco da ragazzi …- fa con gesto noncurante.

- Beh, ma come …

- E’ solo un pagliaccio. Viaggio sicura perché sa benissimo che mio padre è un poliziotto e se si azzarda a torcermi anche un solo capello, beh, peggio per lui …

- Un poliziotto! Forte!

- Forte? Sì, di tanto in tanto, quando l’incontro, non è niente male.

- Lavora molto, eh?

- Non so. Vive a Torino. Figlia di genitori separati. Non fare quella faccia da “oh, ho fatto una gaffe”. Ormai ci sono abituata, più o meno. Sei anche tu nel club?

- No, io … -

- Lucky you!

- Ma che è questa mania dell’inglese?

- Oh, scusa, mi viene fuori di tanto in tanto. E’ colpa del puzzle della mia famiglia. E’ pazzesco: babbo italiano, mamma americana, un nonno spagnolo, una nonna francese. E’ incredibile ma vero, in famiglia abbiamo uno spirito gitano. Parlo quattro lingue. La mamma mi ha raccontato che fino a cinque anni non ho detto una parola, poi … crash! Il big ben! Ho cominciato a parlare e non mi sono più fermata.

- Cavolo … sono senza parole … ecco perché parli a mitragliatrice, come prima!

- Sì, beh, comunque per parlare di lingua te ne serve una sola e non è detto che tu riesca a farti capire lo stesso … vedi te per esempio … Sei a piedi? Vieni che ti accompagno a casa in bici - ha concluso, prima che avessi potuto replicare qualcosa. Non ho saputo ancora una volta cosa rispondere, così mi sono limitato a montare ritto in piedi sul portapacchi. Il fatto è che mi sentivo così normale rispetto a lei, che non sapevo proprio cosa avrei potuto dirle. Forse avrei potuto accennare dell’atletica e dei miei ultimi record personali, ho pensato mentre lei si lanciava a tutta velocità per la discesa. Siamo sfrecciati davanti ad un gruppetto di VB, fra i quali c’era anche Valentina. Ho fatto appena in tempo a notare le sue sopracciglia che si arcuavano, come a chiedersi chi era quella tipa in bici e cosa ci facessi lì con lei. Ma è stato solo un attimo.