Non era stato difficile avere il permesso di seguire
le lezioni di danza. I miei avevano sempre daffare in negozio e poco tempo da
dedicarmi. Lapo all’inizio mise il muso: si sentì tradito dalla novità. Ebbe il
permesso però di assistere alle nostre lezioni, purché stesse in silenzio e non
disturbasse: non gli era passata per la testa l’idea che potesse ballare anche
lui. Si sedeva in terra, spalle al muro e ci osservava. Anna un giorno lo
chiamò alla sbarra, gli chiese di togliersi scarpe e calzini. Lui obbedì, pieno
di vergogna. Lo fece provare. Si vedeva che la danza gli piaceva, ma non osò
chiedere ai suoi di segnarlo finché al cineforum non vedemmo Billy
Elliot.
Cominciò un periodo intenso: a scuola facevamo il
tempo pieno e alle cinque eravamo già da Anna. Due ore di danza. I compiti di
scuola dovevo farli in bottega, prima della chiusura, o subito dopo cena, ma
ero così stanca che mi addormentavo sui libri. La mamma cercava di aiutarmi, ma
dovevo seguirla con libri o quaderni in mano a giro per la casa, mentre
preparava la cena, rifaceva i letti, caricava la lavatrice. A volte mi alzavo
prima la mattina, per completare i compiti, ma erano sempre fatti in fretta e
furia.
Quando arrivavamo da Anna ci cambiavamo velocemente.
Dopo il tempo che riteneva necessario per prepararci, se non ci vedeva
arrivare, andava al pianoforte e suonava un Mi ripetuto, martellante: era il
segnale che ci stavamo mettendo troppo. Lei non alzava mai la voce per
riprenderci; manteneva un tono moderato ma risoluto, che accompagnava con
lunghi sguardi: tanto bastava a tenerci in pugno. Volavamo come uccellini nella
grande sala e cominciavamo la lezione: esercizi di stretching per riscaldarci,
poi, schiena diritta e pancia in dentro, passavamo alle cinque posizioni di
base (“fluidità bambini, siate fluidi come l’acqua: a voi ragazze servirà,
quando dovrete eseguire queste posizioni en pointe”), poi esercizi alla sbarra
(“devi appoggiarti delicatamente alla sbarra, Valeria! Non aggrapparti come un
naufrago in mezzo alla tempesta!”): inizio in prima, demi-plié, grand plié in
prima, demi plié e conclusione con braccio aperto, grand plié in seconda, grand
plié in terza (“Equilibrio ragazzi! Un giorno dovrete eseguire un grand plié
senza sbarra!”). Via via aggiungevamo altri esercizi: ports de bras alla sbarra
coordinati con le posizioni dei piedi, delle gambe, del busto; sollevamenti e
relevés, arabesques (“Flessibili come giunchi! Le linee devono essere perfette!
Sorridi Valeria, anche se stai soffrendo… Santo Cielo! Quando avremo qualche
risultato da quell’apparecchio per i denti?”).
La testa di Lara sbuca dalla camera di sua zia e mi
riscuote. Mi viene incontro. Ha la matita sbavata che le fa sembrare gli occhi
due pozzi scuri.
- Il
dottore ha detto che è stato un arresto cardiaco. Ci fosse stato qualcuno qui
con lei, chissà … La mamma è stravolta. L’ha trovata lei. Pensare che eravamo
qui al piano di sotto e non ci siamo accorti di nulla – mi dice col volto
deformato da un dolore che non le ho mai visto.
- E tu,
come stai?
- Mi
concentro sulle cose pratiche: ho contattato il medico per l’accertamento della
morte, mi sto accordando con il babbo per organizzare il funerale. Allestiremo
qui la camera ardente per la veglia … Forse non dovevi venire – mi sussurra poi
dolcemente, facendomi una carezza sul pancione. La bambina fa una
capriola.
Entriamo in camera di Anna e lei è lì, sul letto:
sembra che dorma. Il viso non è contorto, come temevo. Sembra quasi che abbia
le labbra atteggiate a un sorriso ironico. Percorro con lo sguardo la sua
figura, che mantiene anche in questa situazione assurda una strana compostezza.
Arrivo ai suoi piedi, gli strumenti espressivi con cui ha calcato la vita: dita
deformate, unghie annerite, cicatrici di ferite che ha tenuto nascoste da
scarpette di seta. I risvolti negativi delle lunghe ore di allenamento. Adesso
che è inerme, muta, che non può più posare il suo sguardo severo su di me,
adesso la vedo. Adesso sento il suo affanno. “Non ho alcun dubbio di poterti
insegnare, ma tu hai la determinazione per imparare? Devi esercitarti ogni
giorno, desiderare la perfezione” mi ripeteva ogni volta, osservandomi con
sguardo critico. “Non hai ancora imparato a farti uno chignon decente! Il collo
e il viso devono essere scoperti.” E ancora, se non riuscivo, dopo aver provato
più volte, mi diceva, asciutta, “Non puoi o non vuoi? Nella danza non puoi
barare, Valeria!”.
Come avevo potuto darle tanto potere? Lei mi
soggiogava, era come una marea. Eppure adesso, guardandola, sento solo pietà e
affetto. C’è qualcosa di osceno in un corpo senza vita esposto alla vista dei
vivi, ci sono intimità e pudore violati. Se penso che degli estranei verranno
qui, la toccheranno, la sistemeranno per l’ultimo saluto, provo uno strano
dolore: lei non avrebbe voluto. Piano, senza farmi vedere, col lenzuolo
le copro i piedi deformi. Ho bisogno di sedermi. Quei dolorini di stamani si
fanno sentire di nuovo.
- Ti
dispiace se mi sdraio un attimo sul divano? – chiedo a Lara, che mi cinge le
spalle con affetto.
- Io credo
che dovresti andare a casa, Valeria. Ti accompagna Lapo in macchina.
- Solo un
attimo … è questa pancia che diventa dura ogni tanto e mi fa impressione ... ma
è normale, stai tranquilla.
Probabilmente i miei amici hanno ragione. Stare qui
non mi fa bene, eppure non sono pronta ad andare via. Mi sdraio e chiudo gli
occhi. Risento la musica, la sua voce, rivedo i miei movimenti …
Dopo aver iniziato le lezioni di danza cominciai ad
andare male a scuola: avevo insegnanti esigenti che ci facevano lavorare sodo.
Fu una discesa a precipizio, che non seppi frenare: convocarono i miei
genitori. “Il rendimento della bambina è calato. In più appare stanca,
demotivata. Cosa sta succedendo?”. A scuola ero sempre in tensione, perché
sapevo benissimo di non aver studiato come avrei dovuto. Quando ero a danza
cercavo di concentrarmi, ma inevitabilmente il mio sguardo correva ogni tanto
all’orologio, chiedendomi come avrei potuto fare i compiti.
Quando entrai più nel vivo della danza, le mie serate
cominciarono ad essere occupate anche dalle medicazioni. Divenni esperta a
curare i miei piedi da sola: vesciche, ferite e cerotti facevano parte della
mia quotidianità. Una volta il babbo mi trovò intenta a disinfettarmi col
mercurio cromo. Mi guardò, aggrottando la fronte. “Dove pensi di arrivare?”, mi
chiese, scuotendo la testa.
Prese i miei piedi fra le sue mani, li accarezzò,
indugiò sui calli, sulle mie unghie gialle, come avesse voluto farle sparire.
Quella sera parlammo a lungo, mentre la mamma mi spalmava la crema all’ossido
di zinco.
Il giorno dopo non mi mandarono a scuola. La mamma
rimase con me, lasciando il babbo a cavarsela da solo in negozio. Avevamo tutti
bisogno di una pausa.
Il pomeriggio andai a danza. Mi sentivo finalmente
riposata e durante la lezione mantenni una concentrazione impeccabile. Gli
sguardi di Anna mi riempivano di orgoglio, perché scorgevo sul suo volto
sollievo e soddisfazione. Mancavano dieci minuti alla fine della lezione quando
mi feci male. Volli riprovare più volte un salto che non mi riusciva bene.
All’ennesima volta atterrai malamente con il piede girato verso l’interno.
Sentii il dolore che mi arrivava come una stilettata fino al cervello. Anna,
Lara e Lapo furono subito accanto a me, allarmati.
“Hai rovinato tutto, Valeria. Avevi ballato così bene
oggi …” gemette Anna, quando si rese conto che mi ero fatta male. Ho ancora
negli occhi l’immagine della sua mascella contratta. Dopo poco non potei più
camminare: il piede cominciò a gonfiare.
All’ospedale dissero che era una frattura del quinto
metatarso: prognosi di sei settimane. Poi avrei dovuto fare fisioterapia.
Ipotizzarono uno stop di circa tre mesi. Fu definitivo. In quei mesi di riposo
forzato riuscii finalmente a rilassarmi e a riprendere a studiare con più
calma, cercando di colmare le lacune che avevo accumulato. Lapo e Lara
sospesero le lezioni di danza e mi stettero accanto: venivano ogni giorno a
casa mia a studiare, portando anche giochi da tavolo e DVD di vecchi film. Mi
regalarono perfino il Morandini, in modo potessi documentarmi sui film visti e
da vedere. La mamma preparava enormi ciotole di pop corn, fette di pane e
Nutella, latte e biscotti. Passavamo anche molto tempo a chiacchierare.
Lapo in quel periodo era strano, a volte si rabbuiava.
Un giorno ci confessò con gli occhi bassi che aveva mille pensieri: si era reso
conto di quanto bene volesse a un suo compagno di classe. Passò momenti
difficili. A scuola cominciarono a fare battute. Un giorno, a ricreazione, due
ragazzini ripresero le frecciatine. Io e Lara facemmo a botte con loro per
difendere Lapo. Fummo tutti sospesi, ma da quel giorno smisero di tormentarlo.
Nessuno di noi tornò a frequentare le lezioni di
danza. “Tanto io e Lapo siamo solo stati delle comparse. Era te che voleva, non
l’avevi capito?” mi disse Lara.
Una brava insegnante, fra le lezioni di grammatica e
di letteratura, riuscì a compiere il piccolo miracolo a cui ogni bravo professore
dovrebbe aspirare: oltre la conoscenza, la formazione di una coscienza. Realizzai
che tutti i sacrifici che avevo fatto erano volti a guadagnare l’approvazione
di Anna, per guarire dalla mia insicurezza, ma che non amavo la danza quanto
lei e non ero disposta a dedicare la vita a quest’arte. A volte il talento
naturale non corrisponde ai nostri interessi più profondi. E poi arrivò la
vita, con la sua ingovernabilità: la scuola, gli amici, una bellezza che
fioriva a poco a poco, le uscite, i ragazzi, l’università. Ogni giorno andavo
qualche ora a aiutare i miei: mi portavo dietro i libri e studiavo fra un
cliente e l’altro. Il babbo faceva le parole crociate nei tempi morti, diceva
che gli serviva per tenere la mente allenata. Ci facevamo compagnia. A volte entrava
Anna a comprare qualcosa. Scambiavamo qualche frase di circostanza in un mare
di imbarazzo. Sentivo che avrebbe voluto dire di più, ma non succedeva mai. E
poi, e poi il fattaccio. Due linee sullo stick. Mi riversai come un uragano da
Lapo, alla bottega del suo babbo. Non dissi nulla: tirai solo fuori dalla tasca
del giubbotto il test di gravidanza e glielo mostrai.
- Oh mamma, tesoro, come in una brutta telenovela? E ora che facciamo? – mi chiese, turbato.
Lo abbracciai, sentendo il cuore che mi batteva con
sordi tonfi e mi squassava il petto, grata per avergli sentito quella
partecipazione e quell’affetto semplicemente in quel verbo coniugato al
plurale. Rimasi muta, a guardarlo con gli occhi sgranati.
- E
Alberto? Che ha detto?
- È partito
per il master dieci giorni fa … e considerato che a Boston adesso sono le tre
di notte, forse è meglio se aspetto a chiamarlo, che dici?
- Cazzarola,
Valeria, che casino!
Quando telefonai ad Alberto per dirgli che aspettavamo
un figlio rimase muto per un tempo interminabile. Poi il fiume ruppe gli
argini, cominciò a parlare e disse troppo. Alla fine mi prospettò la soluzione
più semplice per lui e la più difficile per me. Raccontai a Lapo e a Lara di
quanto mi avessero ferita le parole di Alberto, di quanto si fosse accorato a
spiegarmi che era tanto, tanto confuso, e che questo incidente non ci voleva,
proprio ora che aveva realizzato il suo sogno di questo master a Boston.
- Oh,
poverino … - commentò Lapo, sarcastico – Pensa solo ai suoi progetti … E i tuoi
sogni, invece? Forse dovresti fargli sapere che un cuoricino ce l’hai anche tu,
tesoro.
Credo che all’ospedale non abbiano capito nulla,
perché la mia bambina nascerà oggi. Lo so, anche se è la mia prima figlia.
Chiamo Lara, che accorre subito.
- - Mi sa che mi si sono rotte le acque, Lara. Adesso mi alzo da questo divano
e temo che ti farò una pozza in terra …
Lo sguardo di Lara si allarga.
- - Lapo, vieni subito! Andiamo in
ospedale! Valeria partorisce!
Siamo in macchina, diretti all’ospedale. Lapo guida,
assorto. Lara è dietro, insieme a me e mi tiene la mano.
- Dovrebbe
esserci Alberto in questo momento. Oggi nasce sua figlia e quell’infame dov’è?
- Lapo, per
favore, non è il momento. Lasciala tranquilla.
- Sono
tranquilla ragazzi. Ho avuto nove mesi per tranquillizzarmi. Quanto ad Alberto,
staremo a vedere … ha detto che, in qualche modo, lui ci sarà … anche se ancora
non sa bene come …
- Non
importa tesoro, perché noi ci saremo sempre invece, e da subito – mi rassicura
Lapo, guardandomi dallo specchietto retrovisore.
- Mi
dispiace che hai dovuto chiudere il negozio per me, Lapo.
- Figurati!
Le zucchine si venderanno anche domani. E poi volevo già chiudere per la morte
di Anna, in segno di rispetto. Ma è più bellino scrivere chiuso per lieto evento,
no?
Al primo semaforo rosso Lapo si gira verso di me e pianta
i suoi occhi dentro i miei.
- Sai che
si fa se quel demente di Alberto non si prende le sue responsabilità? Ti
aiutiamo noi a crescere la bambina e, se non ti innamori più di nessuno, ci si
sposa io e te. Che dici? Ricorda: la bambina cresce, un cattivo marito rimane.
Se non ti vuole, che se ne vada al diavolo. Ti prendo io che ti voglio un mondo
di bene, anche se non in quel modo lì.
- Lapo,
magari tu sposerai Michele, prima o poi.
- Figurati!
Quel pusillanime! Ancora non ha detto nulla ai suoi. Mi aveva promesso che me
li avrebbe presentati per il suo compleanno e ha ringambato. L’ennesima
volta!
- Magari
gli serve solo un po’ di tempo … forse lui non ha avuto due amiche che hanno
fatto a botte per lui!
A Lapo scappa un sorriso.
- Maremma,
Lara, ti ricordi che labbrata gli tirò la Valeria a quell’imbecille? Gli lasciò
l’impronta delle sue manine secche su quel faccione!
Abbiamo tutti un attacco di ridarella a ricordare quei
momenti. Eppure a quel tempo facevano male. Con un animo un po’ più leggero
arriviamo in ospedale.
In sala parto è entrata Lara con me, a farmi forza e a
darmi coraggio per resistere a dei dolori sconosciuti. Quando Agata è scivolata
fuori da me e me l’hanno appoggiata sulla pancia abbiamo riso e pianto insieme.
Adesso siamo qui in reparto, io e la mia piccina: me
la tengo sulla pancia col capino sotto il mio mento. Un figlio può essere solo
una scoperta. Penso a questo mentre affondo il naso nell’incavo fra il collo e
il viso della mia bambina. Le sento addosso un odore irresistibile di biscotto.
Il babbo, che mi ha raggiunto dopo aver chiuso il
negozio, fa le parole crociate, seduto accanto al letto.
- Senti
Valeria, due orizzontale: “Così è il vivere privo di rischi”. Sono sei lettere,
la terza è una i, la sesta una o.
Ci penso un po’.
- Noioso,
dico convinta
Aggrotta la fronte e ci rimugina.
- Dici?
Noioso? Mah … Ci starebbe in effetti, gli incroci tornano … - sospira e
addrizza le spalle. A volte anche un cruciverba riesce a darci un tocco di
ottimismo. Ai miei questa situazione sembra enorme, ma non lo dicono.
– Ora devo andare, Valeria, vado a vedere come sta la
mamma. Guarda se la sciatica doveva farsi sentire proprio in questi giorni …
faccio una foto alla bambina e vado. Era così dispiaciuta di non poter venire
che le veniva da piangere.
- Dalle un
bacio. Vedrai che mi mandano via domani. La vedrà a casa!
Solo quando è uscito mi accorgo che ha lasciato le parole crociate sul tavolino. Agata dorme e la metto nella cullina trasparente accanto al mio letto. Guardo il cruciverba. Mancano poche parole per finirlo, ma continuo a non trovare le risposte giuste ad alcune definizioni. Alla fine decido di barare e di andare a vedere le soluzioni in fondo al giornalino. Ecco perché non riesco a finirlo! Il vivere privo di rischi non è noioso, ma quieto. Mi viene da ridere e scuoto la testa. Non cambierò quello che ha scritto il babbo, mi dico. Torno al cruciverba e inserisco delle lettere a caso negli spazi bianchi, tanto lui non se ne accorgerà. Lo vedrà completato e passerà oltre. Tutti noi passeremo oltre: abbiamo sempre più coraggio di vivere di quel che crediamo.
Testo di Daniela Darone
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