Lara
e Luca, i nuovi vicini, all’inizio erano solo una targhetta di ottone sulla
porta dell’appartamento accanto al mio, sul pianerottolo del terzo piano. Non
riuscivo mai a incontrarli e mi scocciava suonare il campanello per presentarmi
e dar loro il benvenuto. Lo so che sono ridicola, ma alla mia età vivere da
sola, avendo un appartamento vuoto a fianco, mi metteva tristezza. Solitudine e
acciacchi: sapete quanto sono lunghe e noiose le giornate, per me? Certo, posso
andare al centro anziani, ma da quando l’Armida è morta ho smesso di
frequentarlo. Armida era l’unica con cui mi trovavo bene perché, malgrado
l’età, era piena di entusiasmo; gli altri non fanno che lamentarsi delle loro
malattie: a chi verrebbe voglia di passare anche solo un’ora con quei vecchi
bacucchi? A me piace stare vicina ai giovani, per assorbire la loro energia.
Quindi potete capire com’ero stata contenta quando erano arrivati i nuovi vicini!
Anche senza averli visti, immaginavo fossero due ragazzi: ce la vedete una
coppia di mezza età che mette sulla porta la targhetta coi loro nomi e ascolta
la musica a tutto volume?
Mi
capitava di stare con l’orecchio teso per percepire i rumori che venivano da
casa loro, per cercare di capire quando stavano per uscire, in modo da simulare
un incontro fortuito. Mi vergogno a confessarvi che sono stata pure con
l’occhio allo spioncino della porta, finché potevo resistere a stare in piedi
senza stancarmi troppo. Poi, a un certo punto, ho smesso di dar loro la caccia
e ho deciso di andare diritta al punto. Ho comprato un bel vaso di ciclamini
dalla fioraia e l’ho lasciato davanti alla loro porta di casa, con un
bigliettino di benvenuto. Speravo mi suonassero il campanello, invece ho
trovato solo un foglietto nella cassetta delle lettere: “Grazie. Lara e Luca”.
Perché la gente oggi nei condomini faccia quasi fatica a salutarsi, io non lo
capirò mai. Quando ero giovane organizzavamo delle feste in casa, dove si
invitavano i condomini: si portava qualcosa da mangiare, si mettevano i dischi
e si ballava. Erano divertimenti semplici, ma eravamo felici. Dovreste
provarci, vi rendereste conto che la gente è fatta per star con la gente, non
per vivere da eremiti. Comunque, qualche giorno dopo ho intravisto lui in
terrazza: non volevo sbirciare, però i nostri balconi son divisi solo da un
muretto e mentre stendevo i panni l’ho notato. Un ragazzo alto, moro, piazzato
bene. Fumava e guardava lontano, con le cuffiette nelle orecchie. Non so se mi
ha vista, ma non ha mosso un muscolo. Io gli ho pure dato il buongiorno, ma
forse non ha sentito, perché teneva la musica così alta in quei cosi, che
riuscivo a sentirla pure io! E poi forse non stava bene, perché gli tremavano le
mani.
Lei
invece ho iniziato ad incontrarla in ascensore, qualche tempo dopo. Era uno
scricciolino timido con due occhi scuri scuri e una massa di capelli neri.
Mentre salivamo al piano, io le sorridevo e lei sfuggiva lo sguardo, imbarazzata,
come succede di solito con gli sconosciuti in ascensore, insomma avete capito.
Solo che, a forza di incontrarci, alla fine abbiamo cominciato a scambiare due
parole, niente di che, le solite banalità, mentre quell’ascensore malandato ci
portava al terzo piano. Dall’accento avevo capito che non era di qui, e avrei
voluto chiederle se si era trasferita per motivi di studio, di lavoro o
d’amore, sapere qualcosa in più di loro, fare un po’ di amicizia, ma si capiva
che lei era molto riservata e poi i giovani mica fanno amicizia con gli
anziani!
Ho cominciato a capire che c’era un problema fra loro una notte che, come al solito, non riuscivo a prendere sonno. Mi sono affacciata alla finestra per prendere un po’ d’aria e li ho visti. Lei cercava di sostenerlo, lui si appoggiava a lei, strascicando i piedi, e quasi la faceva cadere, tanto si abbandonava. Camminavano pian piano verso il portone quando, a un tratto, Luca si è fermato, ha armeggiato un po’ coi pantaloni e ha urinato sul palo del lampione. Lei ha fatto come per alzare la testa, per controllare che non ci fosse nessuno a osservarli, così mi sono ritirata svelta, per non farmi vedere. Sono rimasta nascosta, col cuore che mi batteva forte: mi son detta che forse erano usciti e lui si era sentito male o che aveva bevuto un bicchiere di troppo. Può capitare, no? Quando ho sentito il portone che sbatteva, ho trotterellato fino allo spioncino per vederli entrare in casa, ma appena sono usciti dall’ascensore lui è crollato steso sul pianerottolo. È rimasto in terra e non provava nemmeno a rialzarsi: se ne stava lì a sghignazzare, mentre lei tentava di chiudergli la bocca, lo scongiurava di far piano. China su di lui, gli bisbigliava nell’orecchio, accarezzandogli i capelli. Pian piano si deve essere addormentato. Lei allora si è appoggiata al muro e si è messa a piangere. Lì per lì volevo aprire la porta e aiutarla, ma non sapevo cosa dirle. Di sicuro non avremmo avuto la forza di sollevarlo e portarlo in casa.
Il giorno dopo, mentre facevo colazione, li ho sentiti litigare. Lui aveva la voce cattiva, piena di rabbia. “Smetti di controllarmi!” ha ringhiato, prima che la musica inondasse il loro appartamento e coprisse tutto. Ho poggiato l’orecchio al muro, santo cielo, perché stavo in pensiero per Lara. “Non sono io a controllarti. È l’alcool che ti controlla! Non ti amo quando questo mostro ti divora”, diceva lei. Sono andati avanti a discutere un bel po’. Cosa usciva dalla bocca di lui … avreste dovuto sentirlo! Non ve lo dico perché mi vergogno a ripetere certe parole … A me è venuto un groppo alla gola a pensare a lei: a quella musica che forse metteva per nascondere i litigi e al suo tono accorato, che ignorava la volgarità di Luca.
Quel giorno stesso ci siamo incontrate in ascensore. Ci siamo scambiate un saluto, ma poi siamo rimaste in silenzio, solo che questa volta lei non ha sfuggito lo sguardo. Forse voleva capire se avevo visto o sentito qualcosa, e così abbiamo avuto un dialogo muto, fatto di sguardi, che però per me son stati eloquenti, e se non fosse stato per il tema triste sarebbe stata una bella esperienza di comunicazione umana, di cui siamo capaci, ma che abbiamo dimenticato.
- È duro vivere così – mi hanno detto i suoi occhi cerchiati e il visino smunto.
- Come hai fatto a finire con un tipo del genere, scricciolino? Sono preoccupata, con tutto quello che si sente dire … Sarebbe capace di farti del male? Ti manipola? Ti mente?
- A volte anche i bravi ragazzi si perdono, per le ragioni più diverse … e quanto gli scioglie la lingua quel veleno!
- E tu? Minimizzi, lo accudisci, ti prodighi e sbagli a non chiedere niente per te.
Prima che ognuna di noi prendesse la sua strada, le ho parlato.
- Sai, mi piace quel disco che mettete spesso.
Ha abbozzato un sorriso: avreste dovuto vedere come era dolce quel visino!
- Mi scusi, forse l’ho disturbata. Terremo la musica più bassa.
- Macché! Per godersi il silenzio ci sarà tutta l’eternità. E come si chiama il tuo disco?
- È un album di Brent Faiyaz: “Wasteland”.
- Uh, gli stranieri non li conosco. E di che parla?
- Parla della vita … - ha detto, dopo un attimo di esitazione - e per me è un monito.
Così, ogni volta che sento quella musica, tendo l’orecchio. A volte sento Lara che canta e so che va tutto bene, più spesso la musica è più alta e allora sento lui che si lamenta, porte che sbattono, suppliche, il fracasso di qualcosa che si rompe, promesse, smentite. Fino a quel mattino.
È un mattino bellissimo, con un cielo luminoso. Mi butto sulle spalle lo scialle ed esco in terrazza a bere il mio caffè.
Il tono rabbioso di Luca squarcia la serenità del cielo terso.
Continua ...
Testo di Daniela Darone
Prima immagine: Foto di Helen Zahray su Unsplash
Seconda immagine: Foto di Andrew Neel su www.pexels.com