IL SEGRETO DI STEFANO
- Antonio! Hai visto che
ore sono? Farai tardi ad atletica se non ti sbrighi … lo sai quanto è severo il
mister sulla puntualità!
- Uhm … oggi non ci vado,
mamma.
- Stai male? –mi chiede
aggrottando la fronte preoccupata.
- No.
- E allora? Come mai non
vai?
- Non mi va.
- Come non ti va? Ma se
prima ci andavi anche con il raffreddore!
- Uffa quante storie! Non
mi va e basta! Mica è obbligatorio! – ho risposto quasi urlando.
- Calmo eh? - interviene
il babbo severamente, che per l’appunto è a casa con l’influenza – ti sembra il
modo di rispondere alla mamma? Fra una storia e un'altra è più di un mese che
ci vai una volta sì e tre no …. Credevamo ti piacesse fare atletica. Hai vinto
sempre nelle ultime gare!
- Appunto … magari è
proprio per quello – rispondo svogliato.
- Che vuoi dire?
- Non lo so.
- Certe volte, Antonio,
non è facile parlare con te – risponde il babbo scuotendo la testa in segno di
sconforto - bisogna tirarti fuori le parole di bocca con il cavatappi. Nessun
problema se non ci vuoi andare, solo sembri un po’ demotivato e strano.
- Sono stanco
- Problemi?
- Sì, troppi: di
matematica – rispondo eludendo la domanda, e il babbo alza gli occhi al cielo
spazientito.
- Però sono migliorato con
l’aiuto di Stefano, vero? Quasi quasi faccio un salto da lui per controllare i compiti
per domani.
- Chiamalo prima, potrebbe
essere uscito – interviene la mamma, deponendo per il momento le armi.
- Sì, figuriamoci! Per
andare dove? Lui non ha amici. Studia sempre. E’ per questo che è il migliore
della classe.
- Dove vai con il
giubbotto Antonio? Vengo anch’io con te? Oggi il cappello, però, non me lo
metto – mi fa Clotilde raggiungendomi alla porta di casa e porgendomi il suo
giubbottino.
- No Clo. Vado solo io
fuori. Tu stai in casa. Sei malata.
- Non ce l’ho più la
febbre. Voglio venire con te.
- Ma io vado da un mio
amico, a studiare.
Lei allora fa la faccetta
triste e così la prendo in braccio, dondolando pericolosamente: in fin dei
conti sono più di quindici chili di bambina!
- Ti prometto che torno
presto … e dopo giochiamo! E mentre sono fuori non fare più a pezzi i miei giornalini,
va bene? - le sussurro.
- Va bene - mi fa
sgranando gli occhioni con un guizzo impertinente – uno sì, però … ritaglio quello
vecchio!
Volo giù per le scale a
rotta di collo, come dice la nonna Dibra. In un attimo sono in strada e, non so
perché, mi viene spontaneo respirare a pieni polmoni. Aria di libertà. Non per
niente, ma a volte non hai voglia di star lì a scandagliare tutto quello che
senti. Però i miei hanno ragione. Ultimamente ad atletica vado davvero forte,
eppure sembra che non me ne importi più niente. Anche mentre gareggio, non
sento più l’adrenalina di un tempo. E pensare che il mister l’altro giorno mi
ha pure fatto i complimenti. “Bravo Antonio. Sei finalmente riuscito a lasciar
fuori quell’ansia che t’impediva di dare il meglio. Adesso, quando gareggi, sembri
un professionista: lucido, concentrato. Sei cresciuto, ragazzo” – ha concluso
con aria soddisfatta. Sì, concentrato sì, ma distaccato. La testa è lì, ma il
cuore è da un’altra parte. Solo non so dove. Non è vero che ho lasciato fuori
la parte emotiva di me, è solo che lo spazio per la parte emotiva … non c’è
più. E non so perché. Eppure un tempo mi piaceva. Magari è tutta colpa di
quello che è successo con Gennaro, penso mentre continuo a prendere a calci il
solito sasso che mi sto portando dietro da un po’.
Eccoci qui. Casa di
Stefano. Passare da questa strada rende il tragitto più lungo, ma più sicuro:
mica ho voglia di fare di nuovo brutti incontri davanti alle scuole medie. Quei
tipi potrebbero essere lì anche stasera e di riprenderle non ne ho punta
voglia.
- Chi è? – mi fa una voce
da dietro la siepe.
- Buonasera. Sono Antonio,
un amico di Stefano.
- Stefano non c’è.
- Ah … - rispondo un po’
deluso.
- Vuoi entrare comunque? –
mi fa la voce. E intanto fa capolino dall’inferriata anche il viso di un uomo
con un gran cappello in testa, che tiene in mano una sega circolare
– Sono il giardiniere,
Narciso …
- Basso e indeciso – penso,
senza osare pronunciare quella che mi pare la spiritosaggine del secolo – beh,
il suo nome calza a pennello col suo lavoro …
- Direi di sì – fa lui,
con la faccia di chi è abituato a sentirsi dire certe cose - Allora che fai?
Entri o no?
- No, grazie. Volevo solo
riguardare il problema di matematica per domani.
- Beh, allora puoi
raggiungerlo in biblioteca. Va sempre lì a studiare dopo che ha fatto la sua
ora di lettura. Fra una mezz’ora dovresti trovarlo.
- Che ora di lettura?
Per tutta risposta si è
limitato ad alzare le spalle arrovesciando in giù la bocca, come a dire che non
sapeva altro. Veramente avevo il permesso di andare solo a casa di Stefano e
non di andarmene a girellare da solo allegramente. Ma dato che la biblioteca non
era molto lontana da lì, ho deciso che un salto avrei anche potuto farcelo. La
strada la conosco bene, perché è vicina alla mia scuola e poi perché ci sono
stato tante volte con la mamma e Clotilde.
La biblioteca è in un bel
palazzo, dove ci sono anche un sacco di uffici, la succursale del liceo
linguistico e un istituto per non vedenti. Mentre camminavo nei corridoi che portano
alla biblioteca, sono passato davanti ad una porta, dove ho sentito la voce di
un ragazzino che leggeva ad alta voce. Mi sono soffermato un attimo, perché
leggeva davvero bene, caratterizzando le voci dei personaggi. Mi sono domandato
cosa mai potesse esserci dietro quella porta, così ho tirato su la testa e ho
letto la targhetta in ottone:
Dato che non passava
nessuno, sono rimasto lì dietro ancora un po’, ad ascoltare, e via via che la
voce leggeva, mi pareva sempre più di riconoscerla come quella di Stefano. Così
non ho saputo resistere: ho abbassato la maniglia piano piano, con
circospezione, e sono entrato. Stefano era in piedi nella stanza, ma non poteva
vedermi, perché era di schiena. Un uomo che sedeva dietro un banco mi ha fatto
segno di rimanere in silenzio. Io mi sono seduto per terra, con la schiena
contro il muro, abbracciandomi le gambe. Stefano era senza maglione, con la
camicia con le maniche arrotolate e, mentre leggeva, non poteva fare a meno di
gesticolare, come stesse recitando in teatro. Nella stanza, sul lato opposto,
c’erano tre ragazzi e una ragazza, che ascoltavano come me, seduti su delle
sedie, a occhi chiusi e in vari punti si sganasciavano talmente tanto dalle
risate da coprire quasi la voce di Stefano.
Quando ha finito di
leggere il capitolo, ha fatto un cenno all’uomo dietro il banco, così quello si
è affrettato a dire:
– Ok ragazzi, tempo
scaduto … torniamo in classe e ringraziamo come sempre il nostro amico.
A quel punto si è alzato
un coro di proteste.
“No, ma come?” “ E’ già passata
un’ora? Non si può fare un altro pochino?” “Dai, magari solo qualche altra
pagina …”
- Niente da fare ragazzi.
Purtroppo dobbiamo andare ed anche Stefano ha i suoi compiti per domani, no?
- Beh, sì, però se volete
…
- Ci piacerebbe, ma non
possiamo. Alla prossima settimana, Stefano.
Così si sono alzati e
ognuno di loro ha preso un bastone bianco e solo allora ho capito che quei
ragazzi non vedevano. Guidati dalla voce di Stefano, che stava ancora
scambiando qualche battuta con quel signore, gli si sono fatti tutti intorno
per dargli chi una pacca sulla schiena, una stretta al braccio, una carezza sul
viso. Ognuno di loro l’ha toccato salutandolo.
- Credo ci sia un amico
per te – gli ha fatto uno mentre usciva e mi passava accanto – è entrato prima,
mentre leggevi ….
Così Stefano si è
finalmente voltato ed è rimasto a guardarmi fra il sorpreso e l’infastidito. Ha
afferrato il suo golf e il suo zaino e mi ha strattonato fuori.
- Che vuoi? – mi ha
apostrofato non appena siamo usciti – mi stai spiando?
- Ma che spiando! Ero solo
venuto a cercarti e sono passato da qui … ho sentito la tua voce e sono entrato
a vedere. Sei forte a leggere! Sembri un attore! Ma perché non mi avevi detto
niente? Per quei ragazzi sei un mito! – gli ho detto con entusiasmo.
- Appunto – ha risposto
lui, asciutto.
- Che vuoi dire?
Per tutta risposta ha
fatto spallucce e dopo, mentre si risistemava un po’, ha proseguito - Dai, non
importa … è solo che mi scoccia. Questa è una cosa mia, capisci? Questo sarebbe
proprio come dovrebbe essere se solo …
Ho fatto un movimento con
la testa per invitarlo a continuare.
- … se solo non fossi così
brutto e … unto!
Questo è il classico caso
in cui in teoria dovresti dire qualcosa d’incoraggiante, ma sai già che le tue
parole non uscirebbero convincenti. In fondo Stefano è davvero unto e insomma,
non proprio bello, ecco. Così sono rimasto zitto.
- Che incoraggiamento! Grazie
davvero! Il tuo mutismo dimostra solo che ho ragione - ha fatto lui sarcastico.
- Beh, che ti devo dire …
mamma dice che il tuo non è unto: è sebo … prima o poi se ne andrà, basta
crescere.
- Non mi preoccupa il
prima o poi, mi preoccupa il “frattempo”.
- Nel frattempo sei
intelligente … e simpatico … anche se non molti se ne accorgono in classe,
perché stai sempre sulle tue – mentre parlo, gli rivolgo una sbirciatina di
sottecchi per vedere come la sta prendendo, ma le parole ormai mi escono da
sole, senza che possa fermarle - e poi sei così bravo che gli altri si sentono
un po’ inferiori, e se la prendono con te …
- Fantastico!
- Invece questi ragazzi
qui sono diversi: loro ti vogliono bene. Si capisce, perché tu sei
completamente aperto verso di loro, sei solo quello che sei.
- Il punto è che loro non
mi vedono… e quindi non mi giudicano per i miei capelli unti, ma solo per
quello che sentono, per quello che credono che io sia. Sai che direbbe il mio
babbo? Il loro giudizio non è viziato dal mio aspetto.
All’improvviso, senza
rendermene conto, solo parlando, ho capito che quei ragazzi del libro parlato avrebbero
amato in modo uguale Stefano, anche se avessero potuto vederlo, e che era il
giudizio di Stefano a essere viziato, per dirla come l’avrebbe detta il
principe rospo … beh, senza offesa, s’intende. Il problema non erano solo i
suoi capelli unti, ma anche il suo atteggiamento in classe. Era vero che
suggeriva, che faceva copiare i compiti, e che nonostante tutto continuavano a chiamarlo
“untore”, ma era vero anche che lui non era mai spontaneo in classe come l’avevo
visto poco prima con quei ragazzi, che per paura di essere rifiutato non si
mischiava mai a noi nell’intervallo. Certo, era colpa anche nostra, e avrebbe
dovuto avere un gran fegato per riderci su con noi quando qualcuno faceva
battute su di lui. Però averlo visto prima mi aveva fatto fare un bang nella
testa: prima sembrava un altro. Il suo atteggiamento, la sua voce, anche il
modo di stare in piedi e di gesticolare faceva capire che era davvero un tipo
tosto e che se si fosse mostrato così anche a scuola, avrebbero smesso di
dargli noia.
- Oh! Ti sei addormentato?
- No … sai, pensavo che
magari è colpa tua se a scuola non sei popolare. E’ la tua testa per prima che
devi cambiare … devi solo farti conoscere, ecco. Così come ora ti conosco io.
- Ora alla fine stai a
vedere che è colpa mia! Certo che sei proprio forte! Come se non sapessi che
Tommaso fa circolare in classe i suoi fumetti: “le mirabolanti avventure
dell’Untore e Scordinello” ... li hai letti pure tu, credi non lo sappia?
- Già. E ti dico pure una
cosa: sono divertenti. Perché Tommaso disegna benissimo e ti ha fatto un
costume da eroe niente male … perché in quei fumetti, sarai pure l’untore, ma
sei un personaggio positivo. E se li avessi letti anche tu, come li ha letti
Scordinello, ops ... Marco intendo, ti saresti divertito! Qui sta la
differenza: Marco ci ha riso su e anche se lo chiamano con quel soprannome,
tutti lo ammirano comunque, perché quando gioca a basket sembra che voli quando
va a canestro … solo che mentre cammina normalmente sembra scoordinato. E’ un
difetto, ma solo perché è molto alto e magro e credo ancora non abbia trovato
dove mettere quel chilometro di gambe che si ritrova. Scusa se non te l’ho
detto prima, ma ci ho pensato solo ora. E’ stato un flash. Ciao.
E’ solo quando sto per
uscire dall’edificio, nell’atrio grande del portiere, che sento che Stefano mi
richiama.
- Antonio! Ma dove vai? E poi,
perché sei venuto a cercarmi?
- Lascia perdere Stefano,
bisogna che scappi: è tardi. – rispondo senza voltarmi - E quel ”bisogna che”
mi segue fino a casa, martellandomi nella testa e ricordandomi la tipica
espressione che usa Gennaro. Ma perché mi sarà venuto in mente?