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martedì 16 settembre 2025

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - capitolo 28



TERZO BANCO, LATO FINESTRA

Cara nonna,

oggi è cominciata la scuola. Ieri sera sono stata un secolo davanti all’armadio per decidere il look giusto. Pensavo a dei jeans e a una polo rossa, ma alla fine ho realizzato che fosse un colore troppo vistoso: non volevo farmi notare (quasi impossibile, visto che sono nuova. Avrò tutti gli occhi puntati su di me e tu sai che non mi piace essere al centro dell’attenzione). Altra opzione: dei leggins e una maxi maglia; il problema è che quello che era maxi l’anno scorso ora non lo è più … alla fine ho rubato una maglietta nell’armadio della mamma e ho ottenuto un risultato decente.

Qui è ancora caldo e quindi ho deciso di farmi accompagnare a scuola dallo zio in moto, anziché andare a piedi come avevo pensato all’inizio. Sarebbe stata davvero una scarpinata e non volevo arrivare sudata marcia.

Quando sono arrivata nel piazzale della scuola c’era tantissima gente, dato che i tre edifici comprendono la materna, le elementari e le medie. Lo zio per fortuna doveva scappare subito perché aveva scuola anche lui, alla seconda ora, così non ho fatto la figura della bambocciona accompagnata. Mi sono piazzata al lato del cancello delle medie e me ne sono stata lì davanti, fingendo indifferenza, ma onestamente, nonna, mi sentivo parecchio agitata. Per fortuna poco dopo è arrivata Serena e abbiamo iniziato a chiacchierare, ma purtroppo è arrivata quasi subito dopo Francesca, la sua amica storica asilo-elementari-medie e quella con la quale starà di banco insieme, come mi sembra logico. Quindi che dire, non che Serena non sia stata carina, ma dopo un po’ si sono messe a parlare di un sacco di cose e persone di cui non avevo idea, quindi non mi è rimasta altra scelta che star lì ad ascoltare, fingendo interesse. Quando finalmente è suonata la campanella siamo entrati in mandria e le ho seguite fino in classe. Siamo state le prime a entrare e solo lì per lì ho realizzato che non avevo pensato a quale banco fosse meglio scegliere. In una frazione di secondo ho considerato che la prima fila sarebbe stata da saccente, l’ultima da svogliata. Alla fine, prima che arrivassero gli altri, ho scelto la terza fila, lato finestra. Via via sono arrivati tutti, ma la sedia accanto a me continuava a rimanere vuota, anche perché Serena, che aveva promesso di introdurmi, era impegnata nei saluti di rito a tutta la classe. Ho finto di essere occupatissima a controllare qualcosa nello zaino. Alla fine è arrivata la prof. e la porta si è chiusa dietro di lei. Ok, sono sola, ho realizzato. Fantastico. Classe dispari. La sfigata solitaria. Avevo appena finito di pensarci quando si è sentito bussare e poco dopo è entrato un ragazzo con un cesto di capelli castano scuro, zaino sulla spalla, look un po’ trasandato della serie “mi sono alzato cinque minuti fa”.

- Scusi prof.

- Non fa niente, solo non farla diventare un’abitudine – ha tenuto subito a mettere le cose in chiaro lei.

Il ragazzo si è guardato un po’ in giro, ha individuato l’unico posto libero accanto a me e si è messo a sedere, occupando un’infinità di spazio. Ora, non è che voglia mettermi a fare la pignola, ma sedendosi ha storto il banco e mi è immediatamente venuta in mente Erina quando mi diceva, prendendomi in giro, “finché non c’è il banco diritto, per Clizia non c’è verso di cominciare”. In più è sconfinato nella mia linea immaginaria di metà banco e si è girato verso di me.

- Ciao, sono il Vile.

Nonna, ti giuro, sono rimasta di sasso: non sapevo che dire. Il Vile? In che senso? Come soprannome o come cognome o … “Stimati fra”, ho pensato, ma ovviamente la mia bocca ha articolato altro.

- Ok, ciao … ehm … Vile … io mi chiamo Clizia.

- Ragazzi! – ci ha subito ripresi la prof – invece di presentarvi fra voi e basta, visto che siete nuovi, penso che sarebbe meglio vi presentaste a tutta la classe e smetteste di chiacchierare. Coraggio!

Così ho fatto subito un’impressione negativa alla prima prof entrata in classe e direi che se mi ha bollata come una chiacchierona lo devo solo al mio compagno di banco! Uno alla volta ci siamo alzati e abbiamo detto giusto due parole: il nome, la scuola da cui venivamo, lo sport che facevamo. Grandi cose non mi sono venute in mente, perché ero molto agitata e mi batteva forte il cuore, sentendo tutti quegli occhi puntati su di me. Così ho saputo che il Vile (che si chiama Federico, in realtà … mi fa impressione chiamarlo in quel modo …) era già in quella scuola ed è in classe nostra perché l’anno scorso è stato bocciato. Poveretto, mi sa che sia avvilente pensare a tutti i suoi compagni in prima superiore e lui ancora qui fra noi marmocchi. Mi dirai che ha solo un anno più di noi, nonna, ma ti giuro che dimostra a occhio sedici anni, perché ha proprio un’aria a “grande”. In classe, rispetto all’anno scorso, siamo pochi: solo venti. Undici maschi e nove femmine. Oggi ho conosciuto le prof. di italiano, religione, matematica, inglese e l’unico prof. maschio (almeno per ora): insegna spagnolo, è madrelingua e si chiama Victor Delgado Castillo. Ovviamente hanno già tutti un soprannome, ma la più tartassata è quella di inglese, di cui però ti racconterò la prossima volta. Non ci crederai, ma devo già studiare. Domani, tanto per gradire, abbiamo una verifica di ingresso di matematica. La professoressa ha detto che non terrà conto delle eventuali insufficienze … mah, non so cosa aspettarmi dall’occhialuta. Ha un po’ l’aspetto vecchio stile: crocchia e occhialetti con montatura improponibile, calze spesse da vene varicose … nonna, non sto scherzando, in confronto tu sembri sua figlia!

Adesso devo andare a studiare, ma prima telefonerò a Erina, perché questo primo giorno di scuola senza di lei mi ha fatto un po’ effetto, non lo nego.

Speriamo tutti di ricevere tue notizie al più presto. Ti rendi conto che ancora non ci hai spedito nemmeno una cartolina dalla Francia?  Immagino che ti stia divertendo e che tu sia troppo stanca la sera per trovare il tempo di scriverci.

                                               Un mega bacio nonna, la tua Clizia






- E allora? Che tipi hai in classe?

- Mah … non li ho ancora inquadrati. Stamani più che altro ho parlato con il mio compagno di banco, Serena e Francesca.

- Senti, perché invece di stare a chiacchierare al telefono non prendi l’autobus e vieni da me? Facciamo un giro e andiamo in piazza.

- Mi dispiace, ma devo già studiare! Mi hanno piazzato una verifica di mate per domani.

- E dai! Di già?

- Uhm … e lo sai che non è proprio la mia materia preferita. Vorrei cercare di non fare subito brutta impressione!

- Che secchia! Non ti manco neanche un po’ allora?

- Scema! Lo sai che verrei di volata, se potessi, ma a quest’ora passerei più tempo sull’autobus che con te. Dimmi tu piuttosto, com’è andata stamani?

- Bene. Abbiamo chiacchierato delle vacanze e dei programmi che svolgeremo quest’anno, niente di che.

- E di banco con chi sei?

- Con Vanessa. È stata lei a chiedermi se poteva prendere il tuo posto.

- Già – mormoro, e subito dopo mi scappa un sospirone – quando ricominci judo?

- Domani. Vanessa verrà a fare una lezione di prova con me.

- Oh, è decisa davvero a sostituirmi in tutto!

- Clizia! Lei ci prova, ma chi ce la fa a sostituirti? A proposito, tu hai trovato una palestra per continuare judo?

- No – rispondo, un po’ secca. Mi dà fastidio che Erina continui a non capire la mia nuova situazione. Eppure non è chiara? – in questo momento non voglio chiedere ai miei di spendere dei soldi … qualcosa farò … la scuola è abbastanza lontana e la strada tutta in salita: se anche vado e torno a piedi è un bell’allenamento!

- Beh, pensavo ti dispiacesse smettere judo, dopo tutti gli anni passati a imparare le basi forse ora arrivava la parte più divertente.

- Sì … boh, forse lo facciamo pure da troppo … non so se, anche potendo, avrei continuato. Magari mi sarebbe anche piaciuto cambiare sport.

C’è un attimo di silenzio dall’altra parte. Forse sono stata acida.

- Ok Clizia, allora ti lascio andare a studiare.

- Già. Salutami tutti. Mi mancate un botto, lo sai, vero?

- Lo so. Anche tu ci manchi. Fila a studiare! 

Forse avrei potuto andare, penso subito dopo aver attaccato. Se invece di telefonarle prendevo l’autobus risparmiavo tempo e potevo stare un po’ con Erina e gli altri … magari vedere Davide … oh, al diavolo! Penso a Vanessa, ai suoi capelli biondi e lunghi come spaghetti, gli occhioni verdi. Ce le vedo di banco insieme: Erina ha un carattere più forte di lei e quindi sarà il capo, e Vanessa la gregaria. Senza dubbio, però, le ragazze più carine della classe. Faranno strage di cuori anche in palestra. Lo sguardo mi vaga per la stanza. Non penso a niente in particolare, sto solo lì a sentire un vago disagio che mi cammina addosso. Magari ci vediamo sabato, così le racconto di Yukiko e qualcosa di divertente che sicuramente succederà in classe in questi giorni. Ora bisogna mi concentri o la Prof. Barzi mi farà a pezzettini domani alla verifica.


Continua ...


"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone 
Foto di Riccardo Fraccarollo da pexels
Foto di RDNE Stock project da pexels

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(dalla versione web)



venerdì 5 settembre 2025

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - capitolo 27

  



HAI MAI LETTO UN HAIKU?



La ragazza, dopo un breve sguardo al segnalibro che sto ancora tenendo in mano, fa come per andare oltre.

- Sei Yukiko?

Si ferma, come se l’avessi catturata con un invisibile lazo. Si volta con grazia e rimane a guardarmi, tenendo il paniere con entrambe le mani, con un accenno di sorriso. Sembra proprio la ragazzina di un manga.

- Non mi sembra di conoscerti, mi dispiace.

- Non ci conosciamo infatti. Ho trovato questo cartoncino fra le pagine di un libro che ho preso in biblioteca e allora … insomma, mi sa che è tuo … forse te lo sei dimenticato.

Rimane a guardarmi, sempre con quell’idea di sorriso, ma lo sguardo è incerto e sbigottito: non capisce come abbia fatto a trovarla e a sapere che quel segnalibro l’ha fatto lei!

- Sei stata molto gentile a darti tanto disturbo. Dammi il tempo di lavarmi le mani, così poi possiamo parlare.

La seguo senza dire più una parola, perché mi sembra impossibile averla trovata, così per caso, e ho proprio tanta paura di svegliarmi e capire che tutta questa strana giornata è stata solo un sogno. Immagino che, quando si sarà lavata le mani, aprirà qualche porticina e ci troveremo in un mondo parallelo, invece dal chiostro usciamo semplicemente fuori dal convento e ci troviamo davanti al sagrato.

- Abito qui vicino. Se non ti dispiace potresti accompagnarmi. Posso chiederti come fai a sapere che ho disegnato io il segnalibro? – mi domanda, accennando col mento al cartoncino.

- Oh, beh … ci sono degli ideogrammi e un disegno tipico … uh … giapponese appunto, e così, chiedendo qua e là …

- Comunque non l’ho dimenticato: l’ho lasciato nel libro per farlo trovare alle persone che lo leggeranno dopo di me.

Intanto siamo arrivati davanti ad un piccolo portoncino verde, che non avevo notato venendo su e che comunque, come vedo ora, non ha un campanello col cognome giapponese, quindi non mi avrebbe dato nessun indizio. Apre il portoncino e si volta verso di me.

- Puoi tenere il segnalibro, se ti piace, o se preferisci puoi lasciarlo nel libro quando lo restituirai.

- In questo caso credo proprio che lo terrò. Sei davvero bravissima! Solo … – mi mordicchio un po’ il labbro – magari, dato che sono qui, potresti dirmi cosa c’è scritto!

A questo punto si scioglie un po’ dalla sua compostezza e ride, coprendosi la bocca con la mano.

- Forse è meglio se entri. Posso offrirti un tè freddo. I tuoi genitori sanno che sei venuta a cercarmi?

- Ma certo! – mento spudoratamente, scacciando l’immagine della mamma che mi intima di non fidarmi mai degli sconosciuti.

- Va bene, allora entra pure – mi invita, con un piccolo inchino grazioso.

Dentro, la casa è proprio piccolissima. È una stanza sola, quadrata, con pochissimi mobili e oggetti, molto ordinata. L’ambiente è luminoso e addolcito da un parquet chiaro. Mi chiedo dove dorma, dato che non c’è neanche un letto!

- Mi dispiace, ma non ho delle sedie - mi spiega, arrossendo – io uso i cuscini.

Mi inginocchio su uno dei cuscini poggiati accanto ad un basso tavolinetto e subito dopo mi accorgo che Yukiko è scalza, mentre io ho ancora i miei sandali: non pensavo di doverli togliere! Mi sa che i giapponesi usano togliersi le scarpe, penso, ricordando qualche cartone animato visto in tv ... forse ho fatto una figuraccia … improvvisamente mi sento a disagio e non so cosa dire. Lei intanto versa il tè in delle tazzine minuscole di porcellana, con decori floreali. Un angolino di Giappone a Fiesole. Oltre quella porta chiusa c’è l’Occidente, qui dentro sembra di essere stati trasportati in un altro mondo.


- È bello qui – comincio, un po’ titubante – c’è così … uh … spazio.

Sorride senza mostrare i denti, quasi fra sé.

- L’ordine e lo spazio mi rilassano: il vuoto, per me, è un elemento d’arredo.

- Scusa, magari ti sembro sfacciata, ma dove dormi?

- Su un futon. Forse li avrai visti in qualche film. Durante il giorno lo arrotolo e lo metto nell’armadio, e lo preparo di nuovo la sera, prima di andare a dormire: così nella stanza c’è molto più spazio e posso usarla in modo diverso.

- Hai mantenuto tutte le usanze giapponesi!

- Sì. Sono anche riuscita a trovare un tatami, la stuoia rivestita di giunco, per poggiare il futon.

- Sei qui da tanti anni? Studi o lavori?

- Oh … sono qui da … abbastanza. Lavoro in un vivaio e progetto spazi verdi: sono una garden designer.

- Deve essere divertente! Io invece devo fare la terza media, qui a Fiesole … già … non conosco nessuno e sono tipo … terrorizzata – rido nervosamente – perché sai, prima non abitavo qui, stavo in centro, nel quartiere di Santa Croce, non so se lo conosci … oh, ma che dico? Certo che lo conosci! Insomma, chi è che non lo conosce? – oddio, ora penserà che sono un’invasata, una di quelle che è sicura di stare nella città più bella del mondo, mentre io non so nemmeno di dove sia lei: ma perché non gliel’ho chiesto?! - … ma insomma, sai, poi è successo un casino, perché i miei hanno perso il lavoro e allora siamo venuti a stare qui, da mia nonna e mio zio, per dividere le spese e anche perché loro stanno in una casa grande … anche se non sono ricchi, eh … no, perché insomma, lo erano un tempo … non ricchi sfondati, ma stavano bene, ma poi c’è stata l’alluvione e puf! Dalle stelle alle stalle! Sì, siamo un po’ abituati a farci prendere dagli imprevisti … già … però, insomma, non mi lamento, mi sto … tipo … abituando, ecco!

Probabilmente sto andando a fuoco, perché mi sento la faccia scarlatta e lei, poverina, mi sembra tramortita da questo diluvio di parole, perché mi sa che non è tanto abituata a stare con gli altri: deve essere un’anima solitaria. Però sembra simpatica, ma di sicuro a forza di stare con le piante non è che si sia allenata molto a parlare, almeno non con gli esseri umani.

- E insomma, sono proprio curiosa di sapere cosa c’è scritto sul segnalibro, perché mi piace un sacco l’idea degli ideogrammi.

- Sono haiku.

- Oh.

- Conosci gli haiku?

- Uhm … direi di no.

- Sono poesie: solo tre versi, diciassette sillabe in tutto. Solo poche parole per parlare della natura e dei sentimenti.

- Facili da imparare!

- Sono sintesi … come un’emozione che ti colpisce, un tuffo al cuore, una rivelazione improvvisa …

- E questo l’hai scritto tu?

- No, sono due haiku di Bashō, un poeta molto famoso. Questo dice: “Steli di iris si aggrovigliano ai miei piedi come lacci di sandali”. E questo invece: “Profumo di fiori di pruno: sorge improvviso il sole sul sentiero di montagna”. E poi ho illustrato queste poesie, perché mi piace disegnare.

- Infatti sei bravissima! Sono disegni stupendi. E anche le poesie, ovvio. Mi sembrano così semplici, ma potenti e ... - rimango senza parole, cercando di esprimermi e non trovando le parole mi sento un po’ stupida e infantile – voglio dire che a volte nel tanto trovi poco e invece, in questo caso, nel poco trovi tanto.

Annuisce.

- Se leggerai molti haiku, comincerai a far caso a cose che prima non avevi considerato. Ma non è così immediato … - dice lei ridendo e coprendosi la bocca con la mano. Intanto si alza e prende un libro da uno scaffale – perché non provi a leggere questi?

Così dicendo mi porge un piccolo volume.

- “Il libro degli haiku” di Jack Kerouac.

- Sì, sono haiku scritti da un americano: conosci Kerouac?

- Uhm …. Mi sa che ne ho sentito parlare …

Sorride comprensiva, mentre mi sento una stupida marmocchia.

- Beh, adesso mi sa che è meglio che vada – le dico, riporgendole il libro.

- Oh no, ti prego, tienilo.

Sgrano gli occhi, sorpresa.

- No, io …

- Per favore, per favore tienilo. Sono felice di regalartelo. Puoi metterci il segnalibro dentro!

Un sorriso grande mi illumina il viso.

- Allora grazie.

- Prego – risponde, con un piccolo inchino. Mi accompagna alla porta ed esco di nuovo in occidente. Il sole si allunga sulla discesa, come a indicarmi la strada del ritorno a casa.

- Torna a trovarmi, se vuoi – mi dice sorridendo, mentre chiude la porta.

E io volo a casa, giù per la discesa, con il rischio di inciampare e farmi male, con un regalo inaspettato che stringo in una mano e un senso di possibilità che mi riempie il petto. Sul portone di casa mi scontro quasi con lo zio Dario che sta uscendo.

- Ma dov’eri? Ti cercavano tutti! La nonna era preoccupata.

- Sono andata a San Francesco.

- Oh no, Clizia! Ancora un pellegrinaggio per dare un’occhiata dall’alto a Santa Croce?

- Beh, passando una sbirciatina l’ho data … ma in realtà sono andata al convento.

Mi guarda, aggrottando la fronte.

- Lascia stare, zio … conosci questo tipo? – gli chiedo, mostrandogli la copertina del libro.

- Questo tipo?! Clizia, questo è Jack Kerouac: un importante scrittore americano del ventesimo secolo.

- È un bel ragazzo, no? Un po’ ti assomiglia – dico, considerando la foto della copertina.

- L’hai preso in biblioteca?

- No.

- E allora chi te l’ha dato?

- Non stai facendo tardi, zio?

- Sì, è vero, ma ne riparleremo! – mi minaccia scherzoso col dito, mentre lo spingo fuori – Perché sarei rimasto volentieri a parlare con te di Jack, ma ho un appuntamento e non si fanno aspettare le signorine.

- Un appuntamento galante?

- Potrebbe. Ma sai che, purtroppo, non mi innamoro mai – risponde, alzando le spalle.

Sembra dispiaciuto. Richiudo la porta dietro di me. Povero zio! Così tante spasimanti, ma tutte senza speranza. Mi chiedo se non senta la mancanza di una moglie, o di una fidanzata. A volte anche a me piacerebbe che qualcuno fosse innamorato di me, per capire l’effetto che fa.



Continua ...



"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone
"Dal convento", foto di Daniela Darone
Interno di stanza, foto di Kouji Tsuru su Unsplash


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