HAI MAI LETTO UN HAIKU?
La ragazza, dopo un breve sguardo al segnalibro che sto ancora tenendo in mano, fa come per andare oltre.
- Sei Yukiko?
Si ferma, come se l’avessi catturata con un invisibile lazo. Si volta con grazia e rimane a guardarmi, tenendo il paniere con entrambe le mani, con un accenno di sorriso. Sembra proprio la ragazzina di un manga.
- Non mi sembra di conoscerti, mi dispiace.
- Non ci conosciamo infatti. Ho trovato questo cartoncino fra le pagine di un libro che ho preso in biblioteca e allora … insomma, mi sa che è tuo … forse te lo sei dimenticato.
Rimane a guardarmi, sempre con quell’idea di sorriso, ma lo sguardo è incerto e sbigottito: non capisce come abbia fatto a trovarla e a sapere che quel segnalibro l’ha fatto lei!
- Sei stata molto gentile a darti tanto disturbo. Dammi il tempo di lavarmi le mani, così poi possiamo parlare.
La seguo senza dire più una parola, perché mi sembra impossibile averla trovata, così per caso, e ho proprio tanta paura di svegliarmi e capire che tutta questa strana giornata è stata solo un sogno. Immagino che, quando si sarà lavata le mani, aprirà qualche porticina e ci troveremo in un mondo parallelo, invece dal chiostro usciamo semplicemente fuori dal convento e ci troviamo davanti al sagrato.
- Abito qui vicino. Se non ti dispiace potresti accompagnarmi. Posso chiederti come fai a sapere che ho disegnato io il segnalibro? – mi domanda, accennando col mento al cartoncino.
- Oh, beh … ci sono degli ideogrammi e un disegno tipico … uh … giapponese appunto, e così, chiedendo qua e là …
- Comunque non l’ho dimenticato: l’ho lasciato nel libro per farlo trovare alle persone che lo leggeranno dopo di me.
Intanto siamo arrivati davanti ad un piccolo portoncino verde, che non avevo notato venendo su e che comunque, come vedo ora, non ha un campanello col cognome giapponese, quindi non mi avrebbe dato nessun indizio. Apre il portoncino e si volta verso di me.
- Puoi tenere il segnalibro, se ti piace, o se preferisci puoi lasciarlo nel libro quando lo restituirai.
- In questo caso credo proprio che lo terrò. Sei davvero bravissima! Solo … – mi mordicchio un po’ il labbro – magari, dato che sono qui, potresti dirmi cosa c’è scritto!
A questo punto si scioglie un po’ dalla sua compostezza e ride, coprendosi la bocca con la mano.
- Forse è meglio se entri. Posso offrirti un tè freddo. I tuoi genitori sanno che sei venuta a cercarmi?
- Ma certo! – mento spudoratamente, scacciando l’immagine della mamma che mi intima di non fidarmi mai degli sconosciuti.
- Va bene, allora entra pure – mi invita, con un piccolo inchino grazioso.
Dentro, la casa è proprio piccolissima. È una stanza sola, quadrata, con pochissimi mobili e oggetti, molto ordinata. L’ambiente è luminoso e addolcito da un parquet chiaro. Mi chiedo dove dorma, dato che non c’è neanche un letto!
- Mi dispiace, ma non ho delle sedie - mi spiega, arrossendo – io uso i cuscini.
Mi inginocchio su uno dei cuscini poggiati accanto ad un basso tavolinetto e subito dopo mi accorgo che Yukiko è scalza, mentre io ho ancora i miei sandali: non pensavo di doverli togliere! Mi sa che i giapponesi usano togliersi le scarpe, penso, ricordando qualche cartone animato visto in tv ... forse ho fatto una figuraccia … improvvisamente mi sento a disagio e non so cosa dire. Lei intanto versa il tè in delle tazzine minuscole di porcellana, con decori floreali. Un angolino di Giappone a Fiesole. Oltre quella porta chiusa c’è l’Occidente, qui dentro sembra di essere stati trasportati in un altro mondo.
- È bello qui – comincio, un po’ titubante – c’è così … uh … spazio.
Sorride senza mostrare i denti, quasi fra sé.
- L’ordine e lo spazio mi rilassano: il vuoto, per me, è un elemento d’arredo.
- Scusa, magari ti sembro sfacciata, ma dove dormi?
- Su un futon. Forse li avrai visti in qualche film. Durante il giorno lo arrotolo e lo metto nell’armadio, e lo preparo di nuovo la sera, prima di andare a dormire: così nella stanza c’è molto più spazio e posso usarla in modo diverso.
- Hai mantenuto tutte le usanze giapponesi!
- Sì. Sono anche riuscita a trovare un tatami, la stuoia rivestita di giunco, per poggiare il futon.
- Sei qui da tanti anni? Studi o lavori?
- Oh … sono qui da … abbastanza. Lavoro in un vivaio e progetto spazi verdi: sono una garden designer.
- Deve essere divertente! Io invece devo fare la terza media, qui a Fiesole … già … non conosco nessuno e sono tipo … terrorizzata – rido nervosamente – perché sai, prima non abitavo qui, stavo in centro, nel quartiere di Santa Croce, non so se lo conosci … oh, ma che dico? Certo che lo conosci! Insomma, chi è che non lo conosce? – oddio, ora penserà che sono un’invasata, una di quelle che è sicura di stare nella città più bella del mondo, mentre io non so nemmeno di dove sia lei: ma perché non gliel’ho chiesto?! - … ma insomma, sai, poi è successo un casino, perché i miei hanno perso il lavoro e allora siamo venuti a stare qui, da mia nonna e mio zio, per dividere le spese e anche perché loro stanno in una casa grande … anche se non sono ricchi, eh … no, perché insomma, lo erano un tempo … non ricchi sfondati, ma stavano bene, ma poi c’è stata l’alluvione e puf! Dalle stelle alle stalle! Sì, siamo un po’ abituati a farci prendere dagli imprevisti … già … però, insomma, non mi lamento, mi sto … tipo … abituando, ecco!
Probabilmente sto andando a fuoco, perché mi sento la faccia scarlatta e lei, poverina, mi sembra tramortita da questo diluvio di parole, perché mi sa che non è tanto abituata a stare con gli altri: deve essere un’anima solitaria. Però sembra simpatica, ma di sicuro a forza di stare con le piante non è che si sia allenata molto a parlare, almeno non con gli esseri umani.
- E insomma, sono proprio curiosa di sapere cosa c’è scritto sul segnalibro, perché mi piace un sacco l’idea degli ideogrammi.
- Sono haiku.
- Oh.
- Conosci gli haiku?
- Uhm … direi di no.
- Sono poesie: solo tre versi, diciassette sillabe in tutto. Solo poche parole per parlare della natura e dei sentimenti.
- Facili da imparare!
- Sono sintesi … come un’emozione che ti colpisce, un tuffo al cuore, una rivelazione improvvisa …
- E questo l’hai scritto tu?
- No, sono due haiku di Bashō, un poeta molto famoso. Questo dice: “Steli di iris si aggrovigliano ai miei piedi come lacci di sandali”. E questo invece: “Profumo di fiori di pruno: sorge improvviso il sole sul sentiero di montagna”. E poi ho illustrato queste poesie, perché mi piace disegnare.
- Infatti sei bravissima! Sono disegni stupendi. E anche le poesie, ovvio. Mi sembrano così semplici, ma potenti e ... - rimango senza parole, cercando di esprimermi e non trovando le parole mi sento un po’ stupida e infantile – voglio dire che a volte nel tanto trovi poco e invece, in questo caso, nel poco trovi tanto.
Annuisce.
- Se leggerai molti haiku, comincerai a far caso a cose che prima non avevi considerato. Ma non è così immediato … - dice lei ridendo e coprendosi la bocca con la mano. Intanto si alza e prende un libro da uno scaffale – perché non provi a leggere questi?
Così dicendo mi porge un piccolo volume.
- “Il libro degli haiku” di Jack Kerouac.
- Sì, sono haiku scritti da un americano: conosci Kerouac?
- Uhm …. Mi sa che ne ho sentito parlare …
Sorride comprensiva, mentre mi sento una stupida marmocchia.
- Beh, adesso mi sa che è meglio che vada – le dico, riporgendole il libro.
- Oh no, ti prego, tienilo.
Sgrano gli occhi, sorpresa.
- No, io …
- Per favore, per favore tienilo. Sono felice di regalartelo. Puoi metterci il segnalibro dentro!
Un sorriso grande mi illumina il viso.
- Allora grazie.
- Prego – risponde, con un piccolo inchino. Mi accompagna alla porta ed esco di nuovo in occidente. Il sole si allunga sulla discesa, come a indicarmi la strada del ritorno a casa.
- Torna a trovarmi, se vuoi – mi dice sorridendo, mentre chiude la porta.
E io volo a casa, giù per la discesa, con il rischio di inciampare e farmi male, con un regalo inaspettato che stringo in una mano e un senso di possibilità che mi riempie il petto. Sul portone di casa mi scontro quasi con lo zio Dario che sta uscendo.
- Ma dov’eri? Ti cercavano tutti! La nonna era preoccupata.
- Sono andata a San Francesco.
- Oh no, Clizia! Ancora un pellegrinaggio per dare un’occhiata dall’alto a Santa Croce?
- Beh, passando una sbirciatina l’ho data … ma in realtà sono andata al convento.
Mi guarda, aggrottando la fronte.
- Lascia stare, zio … conosci questo tipo? – gli chiedo, mostrandogli la copertina del libro.
- Questo tipo?! Clizia, questo è Jack Kerouac: un importante scrittore americano del ventesimo secolo.
- È un bel ragazzo, no? Un po’ ti assomiglia – dico, considerando la foto della copertina.
- L’hai preso in biblioteca?
- No.
- E allora chi te l’ha dato?
- Non stai facendo tardi, zio?
- Sì, è vero, ma ne riparleremo! – mi minaccia scherzoso col dito, mentre lo spingo fuori – Perché sarei rimasto volentieri a parlare con te di Jack, ma ho un appuntamento e non si fanno aspettare le signorine.
- Un appuntamento galante?
- Potrebbe. Ma sai che, purtroppo, non mi innamoro mai – risponde, alzando le spalle.
Sembra dispiaciuto. Richiudo la porta dietro di me. Povero zio! Così tante spasimanti, ma tutte senza speranza. Mi chiedo se non senta la mancanza di una moglie, o di una fidanzata. A volte anche a me piacerebbe che qualcuno fosse innamorato di me, per capire l’effetto che fa.
Continua ...
"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone
"Dal convento", foto di Daniela Darone
Interno di stanza, foto di Kouji Tsuru su UnsplashSe ti piace questa storia e vuoi iscriverti al blog, clicca su "Segui" nella barra laterale
(dalla versione web)
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