Ho confessato ad Anna che
non ho inviato la domanda per il concorso per il corpo di ballo indetto dal
Teatro alla Scala. Ho fatto scadere il termine. In realtà la domanda l’avevo
compilata, bastava solo che cliccassi sul tasto invia, invece ho spento il pc e
sono andata a letto. Mi sono detta che alla fine, se cambiavo idea, potevo
alzarmi e inviarla entro la mezzanotte. Ho guardato qualche video su Youtube e
mi sono addormentata. La mattina dopo, al risveglio, non ho provato nessun rimorso;
solo un lieve disagio al pensiero che avrei dovuto avvertire Anna.
Quando gliel’ho detto mi ha
trafitto con uno sguardo che era un amalgama di collera, risentimento e
delusione. Ho visto la sua mandibola contrarsi: mi sono sentita una preda. Reggere
il peso della pressione emotiva di Anna è davvero stressante: credo che da
troppo tempo lei stia reprimendo la rabbia per quello che le è successo, ma
questo le fa reprimere anche la tenerezza, la pazienza, l’empatia. Mi ha presa
per un braccio, accompagnandomi alla porta.
- - Vattene – mi ha sibilato, gelida - Eri
perfetta nel primo atto di Giselle, che era prova d’esame! Ti perderai,
Valeria, oh se ti perderai … - ha concluso con un sorriso amaro, che l’ha fatta
sembrare brutta.
Sono uscita. Avrei voluto parlarne,
farle capire che ho bisogno di sperimentare qualcosa di nuovo: se continuo la
danza classica ho paura che inizierò a odiare ogni singolo passo. Io li ho
visti i piedi di Anna, gli strumenti espressivi con cui ha calcato la vita:
dita deformate, unghie annerite, cicatrici di ferite che ha tenuto nascoste da
scarpette di seta. I risvolti negativi delle lunghe ore di allenamento. Non so
se voglio pagare questo prezzo. La sua reazione però mi ha bloccata. Come ogni
volta, quando tentavo di parlarle dei miei dubbi, non ha voluto ascoltarmi:
liquidava sempre le mie richieste e perplessità come sciocchezze. Ha sbattuto
la porta. Mi sono incamminata lungo il viale, senza una meta. “Eri perfetta”: ci
sono voluti dieci anni perché me lo dicesse. Finora niente era mai abbastanza. A
questo punto avrei preferito non lo avesse detto nemmeno oggi. Mi perderò? Forse. Del resto mi sono già
persa in questi anni: mi sono persa un’adolescenza normale. Se ripenso alla mia
vita prima di conoscerla non riesco a stabilire in modo assoluto se fosse
meglio o peggio. La mia vita prima e dopo di lei è divisa da una linea
netta.
Io, Lapo e Lara eravamo
sempre insieme, attaccati come le botteghe dei nostri genitori su Via
Bixio. Ciondolavamo sempre fra
l’oratorio, dove il sabato pomeriggio il prete organizzava il cineforum, e i
negozi dei nostri genitori, che erano giusto a pochi passi. Io ero la figlia
del fornaio, dove i miei amici venivano a fare la merenda, attirati dall’odore
della schiacciata fumante del babbo; Lara era la figlia dell’artigiana che
realizzava bellissimi paralumi con stoffe e pergamene e nel cui laboratorio ci
trovavamo spesso a disegnare, e infine c’era Lapo, il figlio dell’ortolano, che
d’estate ci allungava manciate di ciliegie i cui noccioli diventavano munizioni
per le nostre cerbottane.
Questa vita durò fino a che
non tornò Anna, la zia di Lara, figura fino ad allora mitica, ma che non avevo
mai incontrato: sapevo che aveva studiato alla scuola di ballo del Teatro alla
Scala e che, una volta diplomata, era
partita in tournée in giro per il mondo con una compagnia straniera.
Lara ogni tanto ci mostrava delle fotografie e delle cartoline che le spediva
la zia: ne eravamo affascinati e incuriositi, era un mondo così diverso dal
nostro!
Anna tornò all’improvviso:
notammo un gran via vai di operai nella villetta bifamiliare davanti alla
scuola, dove viveva Lara. Ci spiegò che sua zia stava ristrutturando il suo
appartamento per trasformarlo in una scuola di danza.
- Ma
come? Non si esibisce più nei teatri di tutto il mondo? – le chiesi, stupita.
- La
zia non può più ballare per qualcosa che ha ai piedi, ma non se ne può parlare
perché altrimenti si mette a piangere.
Io passavo tutta la
ricreazione col naso appiccicato ai vetri della finestra dell’aula, per cercare
di vedere questa zia famosa, ma non ci riuscii mai, fino alla nevicata del 17
dicembre 2010, che rese Firenze e il mio piccolo mondo un paesaggio surreale.
Caddero trenta centimetri di neve. Tornando da scuola camminammo in mezzo a Via
Bixio, guardandoci intorno estasiati: la via di solito così trafficata era
diventata improvvisamente una strada bianca, solitaria e soffice. Io, Lapo e
Lara facemmo un enorme pupazzo di neve, prendendo in giro i grandi che avevano
borbottato “tanto non attacca”, e facemmo a pallate.
Fu quel giorno che la vidi.
Entrò in negozio dai miei per comprare del pane. Aveva un cappotto bianco,
sagomato, che le evidenziava il punto vita, con vistosi bottoni gioiello e un
basco, anch’esso bianco, dal quale spuntavano lunghi capelli castani, raccolti
in una coda bassa. Pensai che fosse bellissima. Forse sentendosi osservata
distolse gli occhi dalle tante qualità di pane che le stava mostrando la mamma
e li posò su di me, che stavo facendo i compiti a un lato del bancone. I suoi
occhi grigi mi studiarono per un lungo istante, prima di concentrarsi di nuovo
sulla mamma. “Sua figlia ha un fisico da ballerina”, le disse, “perché non la
manda da me? Lara inizierà a prendere lezioni: mia sorella ha detto che in
laboratorio adesso è troppo freddo per la bambina. Potrebbero venire insieme.
Ci pensi”. Pagò e uscì. Feci il viso rosso e riabbassai gli occhi sul quaderno,
sentendomi speciale. A quel tempo ero magrissima, portavo l’apparecchio per i
denti ed ero l’unica che non piaceva a nessun bambino di classe. A scuola non
andavo né bene né male, ero timida e mi vergognavo da morire per i vestiti di
seconda mano che mi passava mio cugino e che i miei mi costringevano a
indossare. In più il mio cognome, Malfatta, sul quale i miei compagni non
mancavano di fare battute, sembrava sottolineare crudelmente le mie mancanze. La
signora Anna invece, con le sue parole, aveva dato un nuovo significato al mio
corpo: non ero uno stecco, avevo un fisico da ballerina. La medaglia aveva
mostrato il suo rovescio più bello.
La prima volta che entrai
nella scuola di danza rimasi a bocca aperta. Anna ci accolse in una sala
enorme, con un pavimento in legno color miele: su tutta la parete alla nostra
destra c’era un unico grande specchio, sbarre a più altezze per allievi di età
diverse e dall’altra parte tre ampie finestre. In angolo un pianoforte
verticale. Non era stato difficile avere il permesso di seguire le lezioni di
danza. I miei avevano sempre daffare in negozio e poco tempo da dedicarmi. Lapo
all’inizio mise il muso: si sentì tradito dalla novità. Ebbe il permesso però
di assistere alle nostre lezioni, purché stesse in silenzio e non disturbasse:
non gli era passata per la testa l’idea che potesse ballare anche lui. Si
sedeva in terra, spalle al muro e ci osservava. Anna un giorno lo chiamò alla
sbarra, gli chiese di togliersi scarpe e calzini. Lui obbedì, pieno di
vergogna. Lo fece provare. Si vedeva che la danza gli piaceva, ma non osò
chiedere ai suoi di segnarlo finché al cineforum non vedemmo Billy Elliot.
Cominciò un periodo intenso:
a scuola facevamo il tempo pieno e alle cinque eravamo già da Anna. Due ore di
danza. I compiti di scuola dovevo farli in bottega, prima della chiusura, o
subito dopo cena, ma ero così stanca che mi addormentavo sui libri. La mamma
cercava di aiutarmi, ma dovevo seguirla con libri o quaderni in mano a giro per
la casa, mentre preparava la cena, rifaceva i letti, caricava la lavatrice. A
volte mi alzavo prima la mattina, per completare i compiti, ma erano sempre fatti
in fretta e furia.
Quando arrivavamo da Anna ci
cambiavamo in fretta. Dopo il tempo che riteneva necessario per prepararci, se
non ci vedeva arrivare, andava al pianoforte e suonava un Mi ripetuto,
martellante: era il segnale che ci stavamo mettendo troppo. Lei non alzava mai
la voce per riprenderci; manteneva un tono moderato ma risoluto, che
accompagnava con lunghi sguardi: tanto bastava a tenerci in pugno. Volavamo
come uccellini nella grande sala e cominciavamo la lezione: esercizi di
stretching per riscaldarci, poi, schiena diritta e pancia in dentro, passavamo
alle cinque posizioni di base (“siate fluidi come l’acqua: a voi ragazze
servirà, quando dovrete eseguire queste posizioni en pointe”), poi esercizi
alla sbarra (“devi appoggiarti delicatamente alla sbarra, Valeria! Non
aggrapparti come un naufrago in mezzo alla tempesta!”): inizio in prima,
demi-plié, grand plié in prima, demi plié e conclusione con braccio aperto,
grand plié in seconda, grand plié in terza (“Equilibrio ragazzi! Un giorno dovrete
eseguire un grand plié senza sbarra!”). Via via aggiungevamo altri esercizi:
ports de bras alla sbarra coordinati con le posizioni dei piedi, delle gambe,
del busto; sollevamenti e relevés, arabesques (“Flessibili come giunchi! Le
linee devono essere perfette! Sorridi Valeria, anche se stai soffrendo… Santo
Cielo! Quando avremo qualche risultato da quell’apparecchio per i
denti?”).
Dopo aver cominciato danza
iniziai ad andare male a scuola: avevo insegnanti esigenti che ci facevano
lavorare sodo. Fu una discesa a precipizio, che non seppi frenare: convocarono
i miei genitori. “Il rendimento della bambina è calato. È stanca, demotivata.
Cosa sta succedendo?”. A scuola ero sempre in tensione, perché sapevo benissimo
di non aver studiato come avrei dovuto. Quando ero a danza cercavo di
concentrarmi, ma inevitabilmente il mio sguardo correva ogni tanto
all’orologio, chiedendomi quando avrei potuto fare i compiti. Quando entrai più
nel vivo della danza, le mie serate cominciarono ad essere occupate anche dalle
medicazioni. Divenni esperta a curare i miei piedi da sola: vesciche, ferite e
cerotti facevano parte della mia quotidianità. Una volta il babbo mi trovò
intenta a disinfettarmi col mercurio cromo. Mi guardò, aggrottando la fronte.
“Dove pensi di arrivare?”, mi chiese, scuotendo la testa.
Prese i miei piedi fra le
sue mani, li accarezzò, indugiò sui calli, sulle mie unghie gialle, come avesse
voluto farle sparire. Quella sera parlammo a lungo, mentre la mamma spalmava la
crema all’ossido di zinco sui miei piedi arrossati.
Il giorno dopo non mi
mandarono a scuola. La mamma rimase con me, lasciando il babbo a cavarsela da
solo in negozio. Avevamo tutti bisogno di una pausa. Il pomeriggio andai a
danza. Mi sentivo finalmente riposata e durante la lezione mantenni una
concentrazione impeccabile. Gli sguardi di Anna mi riempivano di orgoglio,
perché scorgevo sul suo volto sollievo e soddisfazione. Mancavano dieci minuti
alla fine della lezione quando mi feci male. Volli riprovare più volte un salto
che non mi riusciva bene. All’ennesima volta atterrai malamente con il piede
girato verso l’interno. Sentii il dolore che mi arrivava come una stilettata
fino al cervello. Furono subito tutti accanto a me, allarmati. “Hai rovinato
tutto, Valeria! Avevi ballato così bene oggi …” gemette Anna, quando si rese
conto che mi ero fatta male. Ho ancora negli occhi l’immagine della sua
mascella contratta. Dopo poco non potei più camminare: il piede cominciò a
gonfiare. Mi misi a piangere. Tutti pensarono che fosse per il dolore e la
rabbia per ciò che era accaduto. Nessuno si immaginò invece che piangevo di
delusione: avrei voluto solo che Anna mi abbracciasse e mi consolasse.
All’ospedale dissero che era
una frattura del quinto metatarso: prognosi di sei settimane. Poi avrei dovuto fare fisioterapia.
Ipotizzarono uno stop di circa tre mesi. In quel periodo di riposo forzato
riuscii a rimettermi in pari con la scuola. Lapo e Lara sospesero le lezioni di
danza per starmi accanto: venivano ogni giorno a casa mia a studiare, portando
anche giochi da tavolo e DVD di vecchi film. Fu in quel periodo che i miei si
resero conto che avevano bisogno di un aiuto: la mamma non poteva lasciare il
babbo sempre solo in negozio per stare con me. Trovarono una ragazza alla pari.
“Dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro e per te sarà come avere una
sorella maggiore”, sentenziò la mamma. Fu così che dopo poco tempo arrivò
Blair, e fu una benedizione: era americana, appena maggiorenne, bionda, gambe
lunghe e un po’ in carne, con un sorriso largo e un perenne buonumore. Era
anche un po’ pasticciona a dire il vero, ma le perdonavi tutto per i sorrisi
con cui si scusava: accettava i suoi errori senza drammatizzarli. Fu entusiasta
del fatto che danzassi, perché anche lei aveva fatto dei corsi, ma di danza
jazz. “Anche se poi ho smesso, come vedi”, disse accennando alla pancetta.
Una volta guarita ripresi
con gradualità le lezioni di danza, mentre i miei amici preferirono dedicarsi
ad altro. “Tanto la zia ha detto che sei solo tu quella col talento” mi disse
Lara un giorno.
Anna mi inserì in una nuova
classe dove non conoscevo nessuna allieva: più Anna era esigente nei miei
confronti, più le mie compagne di corso mi invidiavano. “Non ho alcun dubbio di
poterti insegnare, ma tu hai la determinazione per imparare? Devi esercitarti
ogni giorno, desiderare la perfezione” mi ripeteva ogni volta, osservandomi con
sguardo critico e dominando a stento la collera quando le sembrava che non mi
impegnassi abbastanza. Lei mi soggiogava, era come una marea: avevo bisogno
della sua approvazione, perché solo così riuscivo a vincere la mia insicurezza,
ma accontentarla era sfinente.
Una sera Blair venne a
prendermi a danza e notò la mia faccia lunga. “Se la danza ti fa questo
effetto, forse è meglio smettere” osservò, stringendosi nelle spalle. Tornammo a casa e Blair mise la musica.
“Balliamo come piace a me? Senza tutte quelle regole difficili?”, chiese,
facendo una faccia buffissima. Improvvisammo una danza libera e istintiva e
finimmo per rompere la lampada della scrivania, tanto ci eravamo lasciate
andare. Ridevamo come matte quando tornarono i miei.
Poco tempo dopo Blair mi
accompagnò a “Danza in fiera”: assistemmo a qualche esibizione e partecipai,
senza dirlo ad Anna, a uno stage di danza moderna con un importante insegnante
e direttore di una scuola americana, Nath Taylor, che proponeva una tecnica
innovativa di ballo.
Continua
Testo di Daniela Darone
Foto di Andrea Piacquadio da Pexels.com