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martedì 1 ottobre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Terzo capitolo

 


GIORGIA E PIETRO

Qualcosa della mamma ho già raccontato. Beh, almeno della sua infanzia e di come perse il suo babbo. Forse proprio per questo è cresciuta piuttosto in fretta, con la testa sulle spalle e senza tante fantasie. Magari è stato il suo modo di aiutare la nonna: non crearle problemi. Dal puzzle dei mille racconti messi insieme dai ricordi di famiglia, so che dopo il diploma di ragioneria rinunciò ad andare all’università per cercare un lavoro. Fu assunta come impiegata in una ditta tessile di Prato, dove aveva fatto uno stage durante la scuola.

Fare la pendolare da Fiesole a Prato tutti i giorni, anziché essere un sacrificio, le piaceva. La nonna le comprò un motorino, con cui raggiungeva la stazione, e da lì prendeva il treno. Quello stipendio la faceva sentire grande, utile e orgogliosa di se stessa.

Con lo zio Dario era protettiva, sembrava voler compensare l’assenza di un padre; è grazie alla mamma che lo zio ha potuto seguire le sue aspirazioni. Lui l’ammirava così tanto che avrebbe voluto imitarla: fare una scuola tecnica e trovare lavoro, ma la mamma sapeva che lo zio ambiva a fare altro e così lo incoraggiò a iscriversi al liceo classico e a fare l’università. “Lasciamo tempo al tempo”, rispondeva la mamma a chi le diceva che sarebbe stato meglio che lo zio trovasse presto un lavoro. Fatto sta che il tempo le ha dato ragione: lo zio è diventato un professore di italiano e adora sua sorella, che l’ha sostenuto nel trovare la sua strada. 

Sull’infanzia del babbo, invece, aleggia un mistero. La faccenda è un po’ ingarbugliata e bisogna che andiamo per ordine, anche perché io stessa ci ho impiegato diverso tempo prima di capirci qualcosa, dato che la storia era, a detta della nonna Annalena, un po’ “scabrosa”. Dunque, la “nonna” Annie venne in Italia dalla Francia per studiare. Mentre era qui conobbe un uomo ricco e affascinante, molto più grande di lei, e se ne innamorò follemente. Quando Annie si rese conto di aspettare un bambino, quest’uomo realizzò con orrore improvvisamente due cose: la prima che si era completamente “scordato” di confessare ad Annie che era già sposato; la seconda che aveva urgenti e improrogabili affari da sbrigare a migliaia di chilometri di distanza … quando si dice che il tempismo è tutto nella vita! In quattro e quattr’otto sparì di circolazione. Di lui, a parte il biasimo di tutti, non è rimasto nient’altro. Ogni tanto ci penso e provo ad immaginarmelo: fantastico su dove possa essere e che vita stia facendo, ammesso che sia ancora vivo.

Annie decise di tenere il bambino e sua sorella maggiore Therese si precipitò a Firenze per aiutarla. Therese faceva la traduttrice e poteva svolgere il suo lavoro dove preferiva; d’altro canto i miei bisnonni fecero capire alle due sorelle che preferivano che non tornassero a casa in Francia, per non dare scandalo.

Dopodiché, quando il babbo aveva poco più di un anno, Annie un giorno uscì per andare al lavoro e non tornò più. Inghiottita dal niente. Nessuno ne seppe più nulla. È rimasto questo macigno sul cuore di Therese e del babbo: Annie si allontanò di sua spontanea volontà? O qualcuno le fece del male? Alla fine l’indagine fu archiviata e il babbo fu affidato a sua zia Therese, che diventò quindi la sua nuova “mamma”. Ripresero la loro vita: Therese era decisa a dare al bambino un’infanzia serena e lui, così piccolo e abituato da sempre a vederla, non sembrò risentire in modo grave della mancanza di Annie. Poi gli anni passarono, il babbo crebbe e iniziò, dopo il diploma, a lavorare come perito tessile nella stessa ditta dove lavorava già la mamma. A quel punto Therese decise che era giunto il momento di pensare un po’ a se stessa. Pochi mesi dopo, con le lacrime agli occhi per la commozione, ma determinata a concedersi di vivere la vita che desiderava, partì per un viaggio di sei mesi in Europa. Durante la sua vacanza telefonò ogni giorno e scrisse montagne di lettere e cartoline affettuose al suo Pietro, perché sentiva una forte nostalgia per quel “figlio” lontano, ma non tornò più a vivere a Firenze. Ogni volta che tornava si fermava per qualche mese, ma poi ripartiva. Visse un po’ qua e un po’ là, ma sempre, per così dire, con la valigia sotto il letto. Ora vive da quattro anni in Alto Adige, a Castelrotto, e il babbo pensa che non si sposterà più. Un paio di volte le ha proposto di tornare a Firenze, ma lei dice che lì, in quel paesino di montagna, si è acquietato il suo spirito girovago. L’ultima foto che ci ha mandato la ritrae in un paesaggio innevato accanto ad un buon amico, come dice lei. Questo in effetti è stato l’altro mistero della vita della nonna Therese: non si sposò mai. Chissà perché. Dalla foto che ho scovato un giorno di nascosto nel comodino del babbo e che ritrae Annie e Therese, si nota, malgrado la grande somiglianza delle sorelle, che forse la più bella delle due era proprio Therese. Possibile che non si sia mai innamorata? Perché si dedicò a tal punto alla sorella nei guai? Perché dalla sua bocca non uscì mai una parola di biasimo quando Annie sparì nel nulla, lasciando il mio babbo e lei in una situazione a dir poco complicata? Una volta chiesi al babbo cosa pensasse della sua vera mamma. Lui rimase a fissare un punto lontano. “Non posso giudicare, Clizia” rispose alla fine, dopo essere stato a lungo a riflettere “preferisco pensare a lei sperando che sia viva e in pace. Io ho avuto una vita felice con Therese, anche se mi è rimasta l’ombra di mia madre sul cuore, che a volte fa male.”

Qualche mese dopo la partenza di Therese, un giorno il babbo capitò per caso nell’ufficio della mamma. Lei lavorava in contabilità e lui non aveva mai avuto occasione di vederla: il suo lavoro, anche se nella stessa ditta, si svolgeva in ambienti diversi. Si innamorò perdutamente al primo sguardo di quella ragazza dai capelli scuri e cominciò a farle una corte serratissima. Lei all’inizio non voleva prenderlo in considerazione, perché non aveva intenzione di innamorarsi di un collega e poi il babbo aveva qualche anno meno di lei: non le sembrava opportuno. Il babbo però non si fece scoraggiare e lei alla fine si decise a concedergli un appuntamento, scoprendo così che condividevano molti interessi. Iniziarono a uscire insieme e poco più di due anni dopo le campane suonarono a festa: Giorgia e Pietro uscirono di Chiesa, stringendosi per mano, felici, schermandosi da migliaia di chicchi di riso.


Continua ...


"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

Foto di Engin Akyurt su Unsplash

venerdì 27 settembre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Secondo capitolo

Il Marzocco (Firenze)

 

TRAPPOLINO

 

Più tardi, a letto, mi sono girata e rigirata senza riuscire a prendere sonno. Andare a vivere con la nonna e lo zio in realtà non mi dispiace: adoro la nonna Annalena e lo zio Dario. Solo che vivono a Fiesole e io non voglio lasciare il mio quartiere di Santa Croce e tutto quello che significa. Beh, incluso Davide, ovviamente. Ho cercato di ripensare ai tragitti in macchina quando andiamo a Fiesole. In realtà non è lontano, però io ho solo tredici anni e non posso andarmene a giro da sola come mi pare e piace. Avessi almeno l’età per guidare un motorino o una macchina, allora non sarebbe la fine del mondo, ma così … lo so che potrò sentire Erina al telefono e vederla nel fine settimana, ma è inutile prendersi in giro: non sarà più la stessa cosa. L’amicizia e la confidenza sono fatte di quotidianità, non di visite saltuarie. La mia vita e le mie amicizie sono destinate a cambiare. Che malinconia … mi mancherà tutto di qui! La mia scuola, i miei amici e le passeggiate pigre e lente che facciamo nel fine settimana con i miei genitori o con la nonna e lo zio quando vengono a trovarci. Se ci penso mi sembra di sentire il suono dei nostri passi che scendono le scale. Usciti dal portone, come prima tappa, ci dirigiamo sempre all’edicola di Piazza Santa Croce, per comprare il giornale. Poi, camminando per Via Magliabechi e corso Tintori, raggiungiamo i Lungarni e la Biblioteca Nazionale. Oppure a volte arriviamo fino al mercato di Sant’Ambrogio, dove la mamma compra qualcosa di fresco da cucinare a pranzo, e usciti dalla piazza del mercato, per via del Verrocchio, facciamo un salto in Piazza dei Ciompi, al mercatino dell’antiquariato, dove il babbo e lo zio si tuffano alla ricerca di vecchi fumetti, mentre io, la mamma e la nonna ci aggiriamo fra le bancarelle. L’ultima tappa prima di tornare a casa è sempre il cartellone del Teatro Verdi, dove a volte, all’ultimo minuto, decidiamo di trascorrere la serata del sabato o il pomeriggio della domenica.

Quando con noi ci sono la nonna e lo zio Dario, a volte parlano dell’alluvione del 1966 e dei danni che ha provocato, soprattutto nel nostro quartiere. Quando la mamma e lo zio erano piccoli abitavano qui. Il nonno e la nonna avevano un negozio di tessuti: sottosuolo e piano terra servivano da magazzino e negozio, mentre al primo piano c’era l’appartamento dove abitavano. Il 4 novembre 1966 l’Arno esondò e l’acqua limacciosa del fiume invase la città. Il magazzino dei nonni si allagò, la furia dell’acqua sventrò il negozio: persero tutto e non riuscirono a riprendersi più da quel tracollo. Purtroppo il nonno morì qualche anno dopo. La nonna, rimasta vedova, si rimboccò le maniche e riuscì a crescere da sola la mamma e lo zio. Per fortuna il nonno veniva da una famiglia piuttosto agiata e vendendo qualche proprietà la nonna riuscì a cavarsela. Fu allora che si trasferirono a Fiesole.

In queste strade c’è la storia della mia famiglia: io appartengo a questo quartiere da sempre. E poi c’è Trappolino, il leone del mio cuore, che mi protegge. Quando ero piccola la mamma inventava mille storie su di lui. Prima di andare a letto, nelle notti d’estate, ci affacciavamo alle finestre di casa nostra, per vedere se Trappolino stesse saltando sul tetto della Basilica di Santa Croce o stesse correndo sui tetti delle case o sui merli ghibellini di Palazzo Vecchio. Lo immaginavamo mentre saltava sulla cuspide, per aggrapparsi lì, a controllare la città. Quando entravo sotto le coperte, la mamma mi diceva che Trappolino, appena mi fossi addormentata, sarebbe sgattaiolato via dalla cuspide e, furtivo e veloce, dopo la sua avventura notturna, avrebbe raggiunto i piedi del mio letto e si sarebbe addormentato sul tappeto, vegliando sul mio sonno.

Ora mi domando come sarà la mia vita da oggi in poi, con il babbo e la mamma che devono fronteggiare un problema così grande. Non sempre le difficoltà uniscono: a volte le famiglie si sfasciano sotto il peso delle preoccupazioni. E poi il babbo e la mamma non avevano già avuto la loro dose di guai durante gli anni della loro infanzia?

Continua ...


"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

Foto di Daniela Darone

martedì 24 settembre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Primo capitolo

 

Veduta di Santa Croce da Villa Bardini, Firenze

FIRENZE, 12 GIUGNO 2009


Devi tenere gli occhi aperti. A volte, quando meno te lo aspetti, la vita si rovescia, perché gli imprevisti capitano a chiunque, anche a te che pensavi di avere tutto sotto controllo.

Clizia: che strano, con un nome così credevo di essere destinata a qualcosa di particolare. Lo zio Dario mi ha detto che il mio nome deriva dal greco e vuol dire “famoso”. È stato lui a suggerirlo ai miei genitori, poco prima che nascessi, prendendo ispirazione dalla commedia di Machiavelli e dalla Clizia del suo amato Montale. Lo zio è un professore di italiano, romantico e con la testa fra le nuvole. Chissà cosa speravano che diventassi? Famosa? Bella? Geniale? Invece non ho niente di particolare, a parte gli occhi: marroni scuri e grandissimi, con lunghe ciglia. Sono loro il mio punto forte. E a forza di concentrarmi sui miei occhi, per assicurarmi di avere qualcosa di speciale anche io, ho imparato a usarli per guardare attentamente, ho imparato a poggiare lo sguardo sui particolari. Così lo sapevo già che a casa c’era qualcosa che non andava: la mamma sbadata, come avesse la testa altrove, la mascella contratta del babbo, i bisbigli al telefono, e poi quella novità di vedere almeno due telegiornali al giorno, noi che prima tenevamo quasi sempre la televisione spenta.

Stasera, finalmente, è venuto fuori il problema.

La scuola è finita da due giorni e sono passata in terza media. Una buona pagella, se sorvoliamo sui voti stiracchiati di matematica e scienze. Io ed Erina ce ne siamo andate un po’ a giro nel quartiere; anche se era un caldo soffocante non abbiamo rinunciato alla conquistata libertà e ci siamo dirette verso Piazza Santa Croce, il punto di ritrovo della nostra compagnia. Siamo rimaste a sedere su una panchina a guardare i turisti che affollavano la piazza e a chiacchierare, mangiando un ghiacciolo. Dopo un po’ è arrivato Davide, il fratello maggiore di Erina, con il suo amico Massimo. Gli occhi di Davide sembravano più verdi del solito e spiccavano sul suo viso abbronzato: mi hanno fatto pensare a delle foglie di menta, tanto erano intensi. Sono occhi pericolosi, mi causano sempre un certo subbuglio. Massimo non faceva che dondolarsi sulla sua bici, mentre ci guardava di sottecchi. A Erina piace Massimo e da come si comporta anche a lui piace lei, ma tutti e due fanno finta di niente: essere la sorella di Davide rende impossibile il loro amore. Non so perché funzioni così fra i ragazzi, ma d’altronde, essendo figlia unica, non ho questo problema. Nessun fratello geloso, nessuna chiacchiera a luci spente in camera per confidarsi segreti, nessuno in vacanza insieme a me pronto a giocare o a fare un giro per esplorare un posto nuovo, niente calci sotto la tavola durante la cena, niente da condividere … beh, avrebbe potuto essere divertente!

Quando sono tornata a casa ho trovato tutto come al solito: tavola apparecchiata, pentole sui fornelli e tutto il resto. Siccome da un po’ ero sempre io che tenevo la conversazione a cena, visto che i miei genitori sembravano sempre assorti in altri pensieri, ho deciso di tacere perché quel silenzio poteva diventare molto assordante e poteva far venir fuori il problema. Ovviamente li tenevo d’occhio: il babbo mangiava tenendo china la testa e la mamma si gingillava facendo vagare la forchetta nel piatto. C’era una pesantezza pazzesca nell’aria, resa ancora più intollerabile dall’afa della giornata, che non accennava a diminuire. A un certo punto ho smesso di mangiare e, sempre in silenzio, mi sono messa a guardarli. I miei occhi saltavano fra lui e lei, come se seguissi una partita di ping pong. Hanno alzato contemporaneamente la testa e mi hanno guardata.

- Ci sono due o tre problemi da risolvere, Clizia – ha iniziato la mamma.

- Solo due o tre? – ho tentato di scherzare, per smorzare quel tono grave. Loro sono rimasti seri.

- Arrivo dritta al punto, tesoro, mi sembra meglio: la ditta dove lavoriamo è fallita. Tutti i dipendenti sono stati licenziati. Era da un po’ che le cose non andavano bene, ma speravamo sempre che potessero migliorare. Invece non è stato così, purtroppo - ha detto la mamma, senza smettere di guardarmi negli occhi.

- E me lo dite così? – sono sbottata, mentre il cuore accelerava i battiti e nella mente prendeva forma l’idea confusa di essere nel bel mezzo di un punto dove ci sarebbe stato un prima e un dopo – Ma come è possibile? Non avete provato a risolvere le cose?

- La situazione era davvero troppo compromessa. E poi, Clizia, non lo ascolti il telegiornale? È da un po’ che dicono che questa crisi è la più grave dopo la Grande Depressione del 1929. Quando parlano della sofferenza del settore manifatturiero, stanno parlando anche di noi – ha detto il babbo, con un sospiro - Adesso dobbiamo voltare pagina e riprogettare la nostra vita. Ne ho parlato a lungo con la mamma e la nonna e abbiamo pensato che, come primo passo, lasceremo questa casa prima possibile.

- Lasciare la casa?! Per andare dove? E poi, che c’entra la nonna? – ho chiesto, mentre un fiume di mille altre domande mi affollava la testa. Sentivo che sarei scoppiata a piangere da un momento all’altro. Improvvisamente mi mancava la terra sotto i piedi.

- Clizia, ci facciamo un sacco di domande anche noi e non siamo sicuri di avere una risposta per tutte. Facciamo una cosa alla volta e ce la faremo. La sfangheremo, Clizia, diciamo davvero – ha continuato il babbo, accarezzando i miei capelli corti - Solo che ci devi aiutare anche tu.

- Io? Come posso aiutarvi? Ho solo tredici anni! – ho risposto singhiozzando, col viso rosso.

- Devi solo adattarti alla nuova situazione. A breve andiamo a stare dalla nonna e affittiamo questa casa. Lo sai anche tu che dobbiamo finire di pagare il mutuo. È l’unica soluzione, almeno per ora.

- Allora lasceremo tutto! Trappolino, Erina, il nostro quartiere, e … e la scuola?

- Frequenterai la terza a Fiesole.

- Ma …

- È così, Clizia. Nessun ma, per favore. Non ti ci mettere pure tu! – ha concluso il babbo.

Il suo tono non ammetteva repliche.

Continua ...


"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

Foto di Daniela Darone



sabato 1 giugno 2024

"Terzo piano con ascensore" - Seconda e ultima parte

 Questa volta non rientrerò in casa, non farò finta di nulla, perché ho paura di questa spirale di ostilità che cresce e rischia di degenerare.  

-        Mi soffochi col tuo amore, Lara! Diventi odiosa! Mi stai sempre addosso, non mi lasci vivere! – le urla.

Un attimo dopo un fragore di vetri rotti mi strappa un grido, mentre qualcosa vola giù dal loro terrazzo e si schianta nel giardino al piano terra, a pochi centimetri da un grasso gatto: il vaso di ciclamini bianchi è un ammasso di cocci rotti, terra sparsa e fiori scomposti. Alcune finestre si aprono, la gente si affaccia, le voci si rincorrono. 

Sento la porta del loro appartamento che sbatte, qualcuno che corre giù per le scale. Mi precipito come posso davanti alla porta di Lara, suono il campanello e intanto busso, la chiamo. Mi apre quasi subito e la scruto, allarmata: è pallida, ma non è ferita, sta bene.

-        Non è niente – mi dice lei, con voce piatta, ma è scossa da tremiti.

-        Vieni un attimo da me. Ti faccio un tè.

-     No, grazie – mi risponde con uno sguardo allucinato - Mi serve solo un cacciavite. Me lo presta?

 


A metà pomeriggio guardo dallo spioncino. Vedo Lara sul pianerottolo che svita la targhetta di ottone. Ai suoi piedi una grossa valigia. Dopo un attimo viene verso la mia porta e mi suona il campanello. Aspetto un po’ prima di aprire, mica voglio che pensi fossi lì a spiarla, e faccio la faccia più sorpresa che mi riesce.

- Sono venuta a restituirle il cacciavite – e poi, stringendosi nelle spalle, continua – e a salutarla.

- Te ne vai?

- La forza la deve trovare da sé. E anch’io, forse, ho una dipendenza: affettiva, verso di lui. La butta via lei, per favore? – mi chiede, porgendomi la targhetta coi loro nomi incisi - Qui non voglio lasciare proprio nulla di me.

Lo scricciolino insicuro, in questo momento, è sparito. Lara è piena di rabbia: è quella che la tiene su e le dà la forza. Ormai l’amore si è rotto, ha lasciato spazio a un inizio di repulsione. 

-        Ci penso io – le dico, prendendo la targhetta – Sai dove andare? Puoi stare un po’ da me, se vuoi.

-      No, grazie. Ho bisogno di andar via di qui … - risponde, mentre si china a raccogliere un sacchetto. - Le lascio questo ... è tutto sciupato, ma mi dispiaceva buttarlo … - dice, porgendomi un foglio di giornale accartocciato dove ha raccolto i resti del vaso di ciclamini che le avevo regalato.

La voce sembra mancarle un attimo, magari la paura si fa strada e allenta il coraggio. Io invece voglio che rimanga salda nella sua decisione, che non vacilli sotto il peso di una sofferenza feroce. Prendo il cartoccio e rimango ad osservare i cocci del vaso, la poca terra raccolta, i fiori sciupati e la loro radice tuberosa.

-        Certo che a prima vista sembra proprio malconcio – rispondo - però, guarda questa strana patata bitorzoluta. La vedi? È la radice del ciclamino, la sua riserva di sostanze nutritive. Al ciclamino non importa se perde i suoi fiori, se il caldo estivo lo secca: sa che può sopravvivere e trovare il modo per germogliare e rifiorire in una pianta rigogliosa e forte. Ha bisogno solo di un buon terreno e di un ambiente luminoso. Sono sicura che a febbraio questo ciclamino fiorirà nuovamente, regalandomi un coloratissimo inverno.

Lara arrossisce un po’ e mi stringe in un abbraccio, prima di salire in ascensore. 



Mi affaccio alla finestra per seguirla con lo sguardo e mi rendo conto che il tempo è cambiato. Il cielo terso di stamani ha lasciato il posto a dei nuvoloni neri che promettono tempesta. Lara cammina svelta trascinando la valigia. La sua coda di cavallo che dondola è l’ultima cosa che vedo prima che giri l’angolo.


Testo di Daniela Darone
Prima immagine: Foto di Vlada Karpovich www.pexels.com
Seconda immagine: Foto di Nick Karvounis su Unsplash

venerdì 31 maggio 2024

"Terzo piano con ascensore" - Prima parte

 


Lara e Luca, i nuovi vicini, all’inizio erano solo una targhetta di ottone sulla porta dell’appartamento accanto al mio, sul pianerottolo del terzo piano. Non riuscivo mai a incontrarli e mi scocciava suonare il campanello per presentarmi e dar loro il benvenuto. Lo so che sono ridicola, ma alla mia età vivere da sola, avendo un appartamento vuoto a fianco, mi metteva tristezza. Solitudine e acciacchi: sapete quanto sono lunghe e noiose le giornate, per me? Certo, posso andare al centro anziani, ma da quando l’Armida è morta ho smesso di frequentarlo. Armida era l’unica con cui mi trovavo bene perché, malgrado l’età, era piena di entusiasmo; gli altri non fanno che lamentarsi delle loro malattie: a chi verrebbe voglia di passare anche solo un’ora con quei vecchi bacucchi? A me piace stare vicina ai giovani, per assorbire la loro energia. Quindi potete capire com’ero stata contenta quando erano arrivati i nuovi vicini! Anche senza averli visti, immaginavo fossero due ragazzi: ce la vedete una coppia di mezza età che mette sulla porta la targhetta coi loro nomi e ascolta la musica a tutto volume?

Mi capitava di stare con l’orecchio teso per percepire i rumori che venivano da casa loro, per cercare di capire quando stavano per uscire, in modo da simulare un incontro fortuito. Mi vergogno a confessarvi che sono stata pure con l’occhio allo spioncino della porta, finché potevo resistere a stare in piedi senza stancarmi troppo. Poi, a un certo punto, ho smesso di dar loro la caccia e ho deciso di andare diritta al punto. Ho comprato un bel vaso di ciclamini dalla fioraia e l’ho lasciato davanti alla loro porta di casa, con un bigliettino di benvenuto. Speravo mi suonassero il campanello, invece ho trovato solo un foglietto nella cassetta delle lettere: “Grazie. Lara e Luca”. Perché la gente oggi nei condomini faccia quasi fatica a salutarsi, io non lo capirò mai. Quando ero giovane organizzavamo delle feste in casa, dove si invitavano i condomini: si portava qualcosa da mangiare, si mettevano i dischi e si ballava. Erano divertimenti semplici, ma eravamo felici. Dovreste provarci, vi rendereste conto che la gente è fatta per star con la gente, non per vivere da eremiti. Comunque, qualche giorno dopo ho intravisto lui in terrazza: non volevo sbirciare, però i nostri balconi son divisi solo da un muretto e mentre stendevo i panni l’ho notato. Un ragazzo alto, moro, piazzato bene. Fumava e guardava lontano, con le cuffiette nelle orecchie. Non so se mi ha vista, ma non ha mosso un muscolo. Io gli ho pure dato il buongiorno, ma forse non ha sentito, perché teneva la musica così alta in quei cosi, che riuscivo a sentirla pure io! E poi forse non stava bene, perché gli tremavano le mani.

Lei invece ho iniziato ad incontrarla in ascensore, qualche tempo dopo. Era uno scricciolino timido con due occhi scuri scuri e una massa di capelli neri. Mentre salivamo al piano, io le sorridevo e lei sfuggiva lo sguardo, imbarazzata, come succede di solito con gli sconosciuti in ascensore, insomma avete capito. Solo che, a forza di incontrarci, alla fine abbiamo cominciato a scambiare due parole, niente di che, le solite banalità, mentre quell’ascensore malandato ci portava al terzo piano. Dall’accento avevo capito che non era di qui, e avrei voluto chiederle se si era trasferita per motivi di studio, di lavoro o d’amore, sapere qualcosa in più di loro, fare un po’ di amicizia, ma si capiva che lei era molto riservata e poi i giovani mica fanno amicizia con gli anziani!    




Ho cominciato a capire che c’era un problema fra loro una notte che, come al solito, non riuscivo a prendere sonno. Mi sono affacciata alla finestra per prendere un po’ d’aria e li ho visti. Lei cercava di sostenerlo, lui si appoggiava a lei, strascicando i piedi, e quasi la faceva cadere, tanto si abbandonava. Camminavano pian piano verso il portone quando, a un tratto, Luca si è fermato, ha armeggiato un po’ coi pantaloni e ha urinato sul palo del lampione. Lei ha fatto come per alzare la testa, per controllare che non ci fosse nessuno a osservarli, così mi sono ritirata svelta, per non farmi vedere. Sono rimasta nascosta, col cuore che mi batteva forte: mi son detta che forse erano usciti e lui si era sentito male o che aveva bevuto un bicchiere di troppo. Può capitare, no? Quando ho sentito il portone che sbatteva, ho trotterellato fino allo spioncino per vederli entrare in casa, ma appena sono usciti dall’ascensore lui è crollato steso sul pianerottolo. È rimasto in terra e non provava nemmeno a rialzarsi: se ne stava lì a sghignazzare, mentre lei tentava di chiudergli la bocca, lo scongiurava di far piano. China su di lui, gli bisbigliava nell’orecchio, accarezzandogli i capelli. Pian piano si deve essere addormentato. Lei allora si è appoggiata al muro e si è messa a piangere. Lì per lì volevo aprire la porta e aiutarla, ma non sapevo cosa dirle. Di sicuro non avremmo avuto la forza di sollevarlo e portarlo in casa. 

Il giorno dopo, mentre facevo colazione, li ho sentiti litigare. Lui aveva la voce cattiva, piena di rabbia. “Smetti di controllarmi!” ha ringhiato, prima che la musica inondasse il loro appartamento e coprisse tutto. Ho poggiato l’orecchio al muro, santo cielo, perché stavo in pensiero per Lara. “Non sono io a controllarti. È l’alcool che ti controlla! Non ti amo quando questo mostro ti divora”, diceva lei. Sono andati avanti a discutere un bel po’. Cosa usciva dalla bocca di lui … avreste dovuto sentirlo! Non ve lo dico perché mi vergogno a ripetere certe parole … A me è venuto un groppo alla gola a pensare a lei: a quella musica che forse metteva per nascondere i litigi e al suo tono accorato, che ignorava la volgarità di Luca. 

Quel giorno stesso ci siamo incontrate in ascensore. Ci siamo scambiate un saluto, ma poi siamo rimaste in silenzio, solo che questa volta lei non ha sfuggito lo sguardo. Forse voleva capire se avevo visto o sentito qualcosa, e così abbiamo avuto un dialogo muto, fatto di sguardi, che però per me son stati eloquenti, e se non fosse stato per il tema triste sarebbe stata una bella esperienza di comunicazione umana, di cui siamo capaci, ma che abbiamo dimenticato.

-          È duro vivere così – mi hanno detto i suoi occhi cerchiati e il visino smunto.

-        Come hai fatto a finire con un tipo del genere, scricciolino? Sono preoccupata, con tutto quello che si sente dire … Sarebbe capace di farti del male? Ti manipola? Ti mente?

-        A volte anche i bravi ragazzi si perdono, per le ragioni più diverse … e quanto gli scioglie la lingua quel veleno!

-        E tu? Minimizzi, lo accudisci, ti prodighi e sbagli a non chiedere niente per te.

Prima che ognuna di noi prendesse la sua strada, le ho parlato.

-        Sai, mi piace quel disco che mettete spesso.

Ha abbozzato un sorriso: avreste dovuto vedere come era dolce quel visino!

-        Mi scusi, forse l’ho disturbata. Terremo la musica più bassa.

-        Macché! Per godersi il silenzio ci sarà tutta l’eternità. E come si chiama il tuo disco?

-        È un album di Brent Faiyaz: “Wasteland”.

-        Uh, gli stranieri non li conosco. E di che parla?

-        Parla della vita … - ha detto, dopo un attimo di esitazione - e per me è un monito.

Così, ogni volta che sento quella musica, tendo l’orecchio. A volte sento Lara che canta e so che va tutto bene, più spesso la musica è più alta e allora sento lui che si lamenta, porte che sbattono, suppliche, il fracasso di qualcosa che si rompe, promesse, smentite. Fino a quel mattino.

È un mattino bellissimo, con un cielo luminoso. Mi butto sulle spalle lo scialle ed esco in terrazza a bere il mio caffè. 

Il tono rabbioso di Luca squarcia la serenità del cielo terso. 


Continua ... 


Testo di Daniela Darone

Prima immagine: Foto di Helen Zahray su Unsplash

Seconda immagine: Foto di Andrew Neel su www.pexels.com



giovedì 18 aprile 2024

"Glissade" - seconda e ultima parte

 



Quell’esperienza mi regalò una visione inedita della danza: richiedeva di mettere in gioco se stessi, il proprio mondo interiore, lasciando libero il corpo di esprimersi senza costrizioni, leggi o canoni. Fu liberatorio e appagante, ma non c’erano scuole di danza nella mia città che seguivano quel metodo, e dovetti quindi considerare quello stage solo come una piacevole parentesi.

Sei mesi dopo Blair ripartì per l’America. Fu dura non averla più a casa con noi: la sua allegria riusciva sempre a contagiarmi e a farmi vedere le cose con più leggerezza. Mi ero così affezionata a lei che non volli più nessuna ragazza alla pari in casa nostra. 

La mia vita, negli anni che seguirono, sembrava viaggiare su un binario ben definito sotto la guida e gli insegnamenti di Anna, malgrado i dubbi che spesso mi assalivano e che non riuscivo a sciogliere. La  scorsa estate però, casualmente, lessi sul giornale che Nath Taylor, dopo nove anni, era di nuovo in Italia, per un workshop estivo di sei giorni che si sarebbe tenuto a Napoli.

Io, Lara e Lapo partimmo: loro visitarono la costiera amalfitana, io rimasi a Napoli per partecipare al seminario. Ritrovai di nuovo quella gioia di danzare che avevo provato da bambina a quello stage. Prima di ripartire mi chiesero di lasciare un recapito: in autunno ci sarebbe stata un’audizione a Milano per l’ammissione a un anno di studio alla scuola di New York. Volevo partecipare? D’istinto risposi di sì.





L’edificio dove si terrà l’audizione è in una zona industriale di Milano, un ex fabbrica dismessa trasformata in centro sperimentale.

Sono arrivata in ampio anticipo, già truccata con cura e con i capelli sistemati con uno chignon che lascia completamente scoperto il collo e il viso. Voglio avere il tempo per fare un po’ di stretching e riscaldare i muscoli, fare degli esercizi di respirazione e visualizzazioni positive. Indosso le mie scarpette da punta rossa e un tutù nero e corto, comprato per l’occasione.

La spazio dove ci esibiremo è enorme: tutti i candidati dovranno ballare contemporaneamente, improvvisando su musiche che sceglierà il direttore della scuola di New York. Mi chiedo come potrò farmi notare in quella situazione. Non so cosa aspettarmi. Cerco di concentrarmi e di allontanare ogni pensiero negativo. Ci chiamano. Siamo pronti a iniziare. Cerco di non pensare a tutti gli altri ballerini, cerco di immaginarmi in uno spazio vuoto, dove far fluire il mio intimo. Chiudo gli occhi e tento di imporre al mio respiro un ritmo profondo. La musica parte e inizio a ballare. Adatto i movimenti della danza classica, quelli che mi sono più familiari, a una musica moderna. Chiedo al mio corpo di parlare, di essere fluido e padroneggiare il movimento, nascondendo ogni sforzo, curando la bellezza delle linee, di avvitarsi verso l’alto come se non avesse peso. Nelle orecchie ho la musica, nella mente il film delle mie lunghe ore di allenamenti, nel cuore un desiderio di fiorire, di esplodere, inondare questa sala di tutte le mie emozioni, ma non so come, mi accorgo che non so come. Forse i miei movimenti sono perfetti, ma non basta questa perfezione, lo sento, lo sento che ci vorrebbe altro, altro, altro, altro …  Nonostante abbia cercato di prepararmi per questa audizione, non è facile volare via dalla gabbia del rigore, estendere il movimento, sentirmi libera di osare di esprimere il mio mondo interiore. All’improvviso mi ritorna in mente un airone che vidi volare sul fiume anni fa: il suo volo rapido, potente, maestoso, le lunghe zampe tese, il collo flessuoso … come allora rivive in me una strana suggestione che mi spinge a concentrarmi sul centro del mio corpo e sviluppare il movimento dall’energia che mi sento dentro. La musica non è più qualcosa che sento, ma risuona dentro di me. Abbandono l’impostazione rigida del classico e inizio a esplorare il movimento: nascono linee spezzate, vibrazioni, movimenti asimmetrici, forze che si attraggono e respingono, contrazioni e distensioni. Pensavo di avere di fronte due opzioni, di dover scegliere una o l’altra, ma in realtà c’è una terza possibilità: essere me stessa, con tutto il mio vissuto classico e la voglia di esplorare il contemporaneo. Il mio volto lascia trasparire tutto adesso, non nascondo più nulla, mi lascio andare. Eccomi! Sono qui, finalmente! Sono io: il movimento che si unisce alla mia interiorità. Mi sto donando: ballo usando tutto il corpo, lo spirito, la sensibilità. Forse non sono perfetta, ma sono emozione, sono bellezza, sono arte.

La musica si interrompe e mi risveglio dal mio incantesimo. Mi sento il cuore martellare nelle orecchie. L’audizione è finita, e in qualunque modo sia andata va bene così, posso uscire a testa alta. Faccio un inchino. Vedo dei piedi che mi si avvicinano.

It looks like you’re hungry.

Alzo la testa. Davanti a me c’è Nath Taylor.  

I’m starving, Sir.


Testo di Daniela Darone

Prima foto in alto: di Ezkol Arnak - www.pexels.com

Seconda foto: di Fabrício Lira - www.pexels.com

martedì 16 aprile 2024

"Glissade" (prima parte)

 


Ho confessato ad Anna che non ho inviato la domanda per il concorso per il corpo di ballo indetto dal Teatro alla Scala. Ho fatto scadere il termine. In realtà la domanda l’avevo compilata, bastava solo che cliccassi sul tasto invia, invece ho spento il pc e sono andata a letto. Mi sono detta che alla fine, se cambiavo idea, potevo alzarmi e inviarla entro la mezzanotte. Ho guardato qualche video su Youtube e mi sono addormentata. La mattina dopo, al risveglio, non ho provato nessun rimorso; solo un lieve disagio al pensiero che avrei dovuto avvertire Anna.

Quando gliel’ho detto mi ha trafitto con uno sguardo che era un amalgama di collera, risentimento e delusione. Ho visto la sua mandibola contrarsi: mi sono sentita una preda. Reggere il peso della pressione emotiva di Anna è davvero stressante: credo che da troppo tempo lei stia reprimendo la rabbia per quello che le è successo, ma questo le fa reprimere anche la tenerezza, la pazienza, l’empatia. Mi ha presa per un braccio, accompagnandomi alla porta.

-       - Vattene – mi ha sibilato, gelida - Eri perfetta nel primo atto di Giselle, che era prova d’esame! Ti perderai, Valeria, oh se ti perderai … - ha concluso con un sorriso amaro, che l’ha fatta sembrare brutta. 

Sono uscita. Avrei voluto parlarne, farle capire che ho bisogno di sperimentare qualcosa di nuovo: se continuo la danza classica ho paura che inizierò a odiare ogni singolo passo. Io li ho visti i piedi di Anna, gli strumenti espressivi con cui ha calcato la vita: dita deformate, unghie annerite, cicatrici di ferite che ha tenuto nascoste da scarpette di seta. I risvolti negativi delle lunghe ore di allenamento. Non so se voglio pagare questo prezzo. La sua reazione però mi ha bloccata. Come ogni volta, quando tentavo di parlarle dei miei dubbi, non ha voluto ascoltarmi: liquidava sempre le mie richieste e perplessità come sciocchezze. Ha sbattuto la porta. Mi sono incamminata lungo il viale, senza una meta. “Eri perfetta”: ci sono voluti dieci anni perché me lo dicesse. Finora niente era mai abbastanza. A questo punto avrei preferito non lo avesse detto nemmeno oggi.  Mi perderò? Forse. Del resto mi sono già persa in questi anni: mi sono persa un’adolescenza normale. Se ripenso alla mia vita prima di conoscerla non riesco a stabilire in modo assoluto se fosse meglio o peggio. La mia vita prima e dopo di lei è divisa da una linea netta. 

Io, Lapo e Lara eravamo sempre insieme, attaccati come le botteghe dei nostri genitori su Via Bixio.  Ciondolavamo sempre fra l’oratorio, dove il sabato pomeriggio il prete organizzava il cineforum, e i negozi dei nostri genitori, che erano giusto a pochi passi. Io ero la figlia del fornaio, dove i miei amici venivano a fare la merenda, attirati dall’odore della schiacciata fumante del babbo; Lara era la figlia dell’artigiana che realizzava bellissimi paralumi con stoffe e pergamene e nel cui laboratorio ci trovavamo spesso a disegnare, e infine c’era Lapo, il figlio dell’ortolano, che d’estate ci allungava manciate di ciliegie i cui noccioli diventavano munizioni per le nostre cerbottane. 

Questa vita durò fino a che non tornò Anna, la zia di Lara, figura fino ad allora mitica, ma che non avevo mai incontrato: sapevo che aveva studiato alla scuola di ballo del Teatro alla Scala e che, una volta diplomata, era  partita in tournée in giro per il mondo con una compagnia straniera. Lara ogni tanto ci mostrava delle fotografie e delle cartoline che le spediva la zia: ne eravamo affascinati e incuriositi, era un mondo così diverso dal nostro!

Anna tornò all’improvviso: notammo un gran via vai di operai nella villetta bifamiliare davanti alla scuola, dove viveva Lara. Ci spiegò che sua zia stava ristrutturando il suo appartamento per trasformarlo in una scuola di danza.

  - Ma come? Non si esibisce più nei teatri di tutto il mondo? – le chiesi, stupita.

     - La zia non può più ballare per qualcosa che ha ai piedi, ma non se ne può parlare perché altrimenti si mette a piangere.

Io passavo tutta la ricreazione col naso appiccicato ai vetri della finestra dell’aula, per cercare di vedere questa zia famosa, ma non ci riuscii mai, fino alla nevicata del 17 dicembre 2010, che rese Firenze e il mio piccolo mondo un paesaggio surreale. Caddero trenta centimetri di neve. Tornando da scuola camminammo in mezzo a Via Bixio, guardandoci intorno estasiati: la via di solito così trafficata era diventata improvvisamente una strada bianca, solitaria e soffice. Io, Lapo e Lara facemmo un enorme pupazzo di neve, prendendo in giro i grandi che avevano borbottato “tanto non attacca”, e facemmo a pallate.

Fu quel giorno che la vidi. Entrò in negozio dai miei per comprare del pane. Aveva un cappotto bianco, sagomato, che le evidenziava il punto vita, con vistosi bottoni gioiello e un basco, anch’esso bianco, dal quale spuntavano lunghi capelli castani, raccolti in una coda bassa. Pensai che fosse bellissima. Forse sentendosi osservata distolse gli occhi dalle tante qualità di pane che le stava mostrando la mamma e li posò su di me, che stavo facendo i compiti a un lato del bancone. I suoi occhi grigi mi studiarono per un lungo istante, prima di concentrarsi di nuovo sulla mamma. “Sua figlia ha un fisico da ballerina”, le disse, “perché non la manda da me? Lara inizierà a prendere lezioni: mia sorella ha detto che in laboratorio adesso è troppo freddo per la bambina. Potrebbero venire insieme. Ci pensi”. Pagò e uscì. Feci il viso rosso e riabbassai gli occhi sul quaderno, sentendomi speciale. A quel tempo ero magrissima, portavo l’apparecchio per i denti ed ero l’unica che non piaceva a nessun bambino di classe. A scuola non andavo né bene né male, ero timida e mi vergognavo da morire per i vestiti di seconda mano che mi passava mio cugino e che i miei mi costringevano a indossare. In più il mio cognome, Malfatta, sul quale i miei compagni non mancavano di fare battute, sembrava sottolineare crudelmente le mie mancanze. La signora Anna invece, con le sue parole, aveva dato un nuovo significato al mio corpo: non ero uno stecco, avevo un fisico da ballerina. La medaglia aveva mostrato il suo rovescio più bello.  

La prima volta che entrai nella scuola di danza rimasi a bocca aperta. Anna ci accolse in una sala enorme, con un pavimento in legno color miele: su tutta la parete alla nostra destra c’era un unico grande specchio, sbarre a più altezze per allievi di età diverse e dall’altra parte tre ampie finestre. In angolo un pianoforte verticale. Non era stato difficile avere il permesso di seguire le lezioni di danza. I miei avevano sempre daffare in negozio e poco tempo da dedicarmi. Lapo all’inizio mise il muso: si sentì tradito dalla novità. Ebbe il permesso però di assistere alle nostre lezioni, purché stesse in silenzio e non disturbasse: non gli era passata per la testa l’idea che potesse ballare anche lui. Si sedeva in terra, spalle al muro e ci osservava. Anna un giorno lo chiamò alla sbarra, gli chiese di togliersi scarpe e calzini. Lui obbedì, pieno di vergogna. Lo fece provare. Si vedeva che la danza gli piaceva, ma non osò chiedere ai suoi di segnarlo finché al cineforum non vedemmo Billy Elliot.

Cominciò un periodo intenso: a scuola facevamo il tempo pieno e alle cinque eravamo già da Anna. Due ore di danza. I compiti di scuola dovevo farli in bottega, prima della chiusura, o subito dopo cena, ma ero così stanca che mi addormentavo sui libri. La mamma cercava di aiutarmi, ma dovevo seguirla con libri o quaderni in mano a giro per la casa, mentre preparava la cena, rifaceva i letti, caricava la lavatrice. A volte mi alzavo prima la mattina, per completare i compiti, ma erano sempre fatti in fretta e furia.

Quando arrivavamo da Anna ci cambiavamo in fretta. Dopo il tempo che riteneva necessario per prepararci, se non ci vedeva arrivare, andava al pianoforte e suonava un Mi ripetuto, martellante: era il segnale che ci stavamo mettendo troppo. Lei non alzava mai la voce per riprenderci; manteneva un tono moderato ma risoluto, che accompagnava con lunghi sguardi: tanto bastava a tenerci in pugno. Volavamo come uccellini nella grande sala e cominciavamo la lezione: esercizi di stretching per riscaldarci, poi, schiena diritta e pancia in dentro, passavamo alle cinque posizioni di base (“siate fluidi come l’acqua: a voi ragazze servirà, quando dovrete eseguire queste posizioni en pointe”), poi esercizi alla sbarra (“devi appoggiarti delicatamente alla sbarra, Valeria! Non aggrapparti come un naufrago in mezzo alla tempesta!”): inizio in prima, demi-plié, grand plié in prima, demi plié e conclusione con braccio aperto, grand plié in seconda, grand plié in terza (“Equilibrio ragazzi! Un giorno dovrete eseguire un grand plié senza sbarra!”). Via via aggiungevamo altri esercizi: ports de bras alla sbarra coordinati con le posizioni dei piedi, delle gambe, del busto; sollevamenti e relevés, arabesques (“Flessibili come giunchi! Le linee devono essere perfette! Sorridi Valeria, anche se stai soffrendo… Santo Cielo! Quando avremo qualche risultato da quell’apparecchio per i denti?”). 

Dopo aver cominciato danza iniziai ad andare male a scuola: avevo insegnanti esigenti che ci facevano lavorare sodo. Fu una discesa a precipizio, che non seppi frenare: convocarono i miei genitori. “Il rendimento della bambina è calato. È stanca, demotivata. Cosa sta succedendo?”. A scuola ero sempre in tensione, perché sapevo benissimo di non aver studiato come avrei dovuto. Quando ero a danza cercavo di concentrarmi, ma inevitabilmente il mio sguardo correva ogni tanto all’orologio, chiedendomi quando avrei potuto fare i compiti. Quando entrai più nel vivo della danza, le mie serate cominciarono ad essere occupate anche dalle medicazioni. Divenni esperta a curare i miei piedi da sola: vesciche, ferite e cerotti facevano parte della mia quotidianità. Una volta il babbo mi trovò intenta a disinfettarmi col mercurio cromo. Mi guardò, aggrottando la fronte. “Dove pensi di arrivare?”, mi chiese, scuotendo la testa.

Prese i miei piedi fra le sue mani, li accarezzò, indugiò sui calli, sulle mie unghie gialle, come avesse voluto farle sparire. Quella sera parlammo a lungo, mentre la mamma spalmava la crema all’ossido di zinco sui miei piedi arrossati.

Il giorno dopo non mi mandarono a scuola. La mamma rimase con me, lasciando il babbo a cavarsela da solo in negozio. Avevamo tutti bisogno di una pausa. Il pomeriggio andai a danza. Mi sentivo finalmente riposata e durante la lezione mantenni una concentrazione impeccabile. Gli sguardi di Anna mi riempivano di orgoglio, perché scorgevo sul suo volto sollievo e soddisfazione. Mancavano dieci minuti alla fine della lezione quando mi feci male. Volli riprovare più volte un salto che non mi riusciva bene. All’ennesima volta atterrai malamente con il piede girato verso l’interno. Sentii il dolore che mi arrivava come una stilettata fino al cervello. Furono subito tutti accanto a me, allarmati. “Hai rovinato tutto, Valeria! Avevi ballato così bene oggi …” gemette Anna, quando si rese conto che mi ero fatta male. Ho ancora negli occhi l’immagine della sua mascella contratta. Dopo poco non potei più camminare: il piede cominciò a gonfiare. Mi misi a piangere. Tutti pensarono che fosse per il dolore e la rabbia per ciò che era accaduto. Nessuno si immaginò invece che piangevo di delusione: avrei voluto solo che Anna mi abbracciasse e mi consolasse.

All’ospedale dissero che era una frattura del quinto metatarso: prognosi di sei settimane.  Poi avrei dovuto fare fisioterapia. Ipotizzarono uno stop di circa tre mesi. In quel periodo di riposo forzato riuscii a rimettermi in pari con la scuola. Lapo e Lara sospesero le lezioni di danza per starmi accanto: venivano ogni giorno a casa mia a studiare, portando anche giochi da tavolo e DVD di vecchi film. Fu in quel periodo che i miei si resero conto che avevano bisogno di un aiuto: la mamma non poteva lasciare il babbo sempre solo in negozio per stare con me. Trovarono una ragazza alla pari. “Dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro e per te sarà come avere una sorella maggiore”, sentenziò la mamma. Fu così che dopo poco tempo arrivò Blair, e fu una benedizione: era americana, appena maggiorenne, bionda, gambe lunghe e un po’ in carne, con un sorriso largo e un perenne buonumore. Era anche un po’ pasticciona a dire il vero, ma le perdonavi tutto per i sorrisi con cui si scusava: accettava i suoi errori senza drammatizzarli. Fu entusiasta del fatto che danzassi, perché anche lei aveva fatto dei corsi, ma di danza jazz. “Anche se poi ho smesso, come vedi”, disse accennando alla pancetta. 

Una volta guarita ripresi con gradualità le lezioni di danza, mentre i miei amici preferirono dedicarsi ad altro. “Tanto la zia ha detto che sei solo tu quella col talento” mi disse Lara un giorno.

Anna mi inserì in una nuova classe dove non conoscevo nessuna allieva: più Anna era esigente nei miei confronti, più le mie compagne di corso mi invidiavano. “Non ho alcun dubbio di poterti insegnare, ma tu hai la determinazione per imparare? Devi esercitarti ogni giorno, desiderare la perfezione” mi ripeteva ogni volta, osservandomi con sguardo critico e dominando a stento la collera quando le sembrava che non mi impegnassi abbastanza. Lei mi soggiogava, era come una marea: avevo bisogno della sua approvazione, perché solo così riuscivo a vincere la mia insicurezza, ma accontentarla era sfinente.

Una sera Blair venne a prendermi a danza e notò la mia faccia lunga. “Se la danza ti fa questo effetto, forse è meglio smettere” osservò, stringendosi nelle spalle. Tornammo a casa e Blair mise la musica. “Balliamo come piace a me? Senza tutte quelle regole difficili?”, chiese, facendo una faccia buffissima. Improvvisammo una danza libera e istintiva e finimmo per rompere la lampada della scrivania, tanto ci eravamo lasciate andare. Ridevamo come matte quando tornarono i miei.

Poco tempo dopo Blair mi accompagnò a “Danza in fiera”: assistemmo a qualche esibizione e partecipai, senza dirlo ad Anna, a uno stage di danza moderna con un importante insegnante e direttore di una scuola americana, Nath Taylor, che proponeva una tecnica innovativa di ballo.

                                                   

                                                    Continua 


Testo di Daniela Darone

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels.com