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domenica 13 ottobre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Quinto capitolo

 


PUNTO E A CAPO

 

Ieri abbiamo passato tutto il giorno a sistemare le nostre cose a casa della nonna. Ho trovato un posto ai miei vestiti e alla mia roba, un po’ nella mia nuova camera e un po’ in sala. Adesso sono qui che mi aggiro in questa stanza e non riesco a pensarla un poco mia: questa camera è già tutta preordinata, non posso incidere in alcun modo. Eppure la nonna ha fatto di tutto per infondermi un po’ d’entusiasmo. Innanzitutto ha liberato due ante dell’armadio e parte del cassettone per far posto ai miei vestiti. Poi mi ha detto che aveva vuotato anche due cassettini dello scrittoio di mogano dove avrei potuto mettere “i miei segreti”. Ha detto proprio così, strizzandomi l’occhio. Però, che dire? È comunque la camera di una nonna. Da un lato c’è un alto letto in ferro con una testata imponente: sopra la testata è appeso il busto in ceramica di una Madonna a mani giunte, con la testa reclinata. Sulla parete davanti al letto c’è un grande armadio, e alla parete di sinistra un cassettone con specchiera, con attaccata da un lato la foto del nonno Augusto. Sul ripiano la nonna ha messo due saliere in argento che usa come portagioielli e due vasi rosa in stile giapponese. Poi vediamo cosa c’è: il mio letto, ovvero rete e materasso, alternativa se non voglio dormire nel lettone con la nonna, e dall’altro lato della stanza l’adorato scrittoio con piano estraibile rivestito in pelle. È un regalo per un anniversario di nozze che le ha fatto il nonno Augusto: lei e il nonno lo videro passeggiando per Via Maggio, nella vetrina di un antiquario. Alla nonna piaceva molto e non perdeva l’occasione di passare davanti alla vetrina ogni volta che poteva, per ammirarlo, fino a che il nonno, facendole una sorpresa, glielo regalò. Mi sembra di capire che sia uno dei ricordi più belli per la nonna. 

Comunque, la mancanza di spazio per personalizzare questa stanza non è il peggiore dei problemi. Il Problema è che la nonna russa: emette un rumore rauco e profondo, alternato a una specie di soffio ritmico e regolare. A volta smette e si gira, per darmi l’illusione che riuscirò ad addormentarmi, ma dopo pochissimo ricomincia, e così via fino al mattino! Ovviamente non ho avuto il coraggio di dire niente alla nonna, ma la mamma mi ha visto con le occhiaie e mi ha chiesto se andava tutto bene. Non voglio creare problemi, ma le ho detto francamente come stavano le cose, facendole l’imitazione della nonna addormentata. Lei non poteva fare a meno di ridere come una matta: evidentemente lo trovava divertente! Ha promesso che andrà a comprarmi dei tappi di cera per le orecchie. Spero funzionino!

Ieri ho conosciuto anche “Cipolla”. Era a casa quando siamo arrivati ed è stato molto gentile a darci una mano a scaricare i bagagli. In realtà si chiama Albert e deve essere qui da poco, perché ci ha detto solo il suo nome e poche altre parole in un forte accento tedesco. Per il resto si è limitato a sorridere molto e ad annuire di più, esibendosi in una mimica facciale degna di nota. Ha una faccia simpatica! La nonna ci ha detto che ha lasciato il suo lavoro in Germania per fare il giocoliere giramondo: “Non so se sia coraggioso o incosciente: licenziarsi in questo periodo di recessione!”, ha commentato, scuotendo la testa. Beh, è senz’altro un tipo eccentrico, anche a giudicare dal mezzo che usa per viaggiare e per esibirsi: un variopinto pulmino Volkswagen!

Clizia? Sei ancora lì? – mi chiede la nonna, entrando nella nostra camera. Si guarda intorno soddisfatta, notando che ho finito di sistemare tutto. - Che brava! Hai trovato abbastanza posto per i tuoi vestiti?

Sì, il problema è ricordare dove ho messo le cose! – rispondo, stringendomi nelle spalle.

Oh, non preoccuparti! Fra pochi giorni ti sembrerà di aver abitato sempre qui! Bene – continua, notando la mia espressione dubbiosa – stasera potresti andare a fare un giro qui intorno per familiarizzare con il nuovo posto. Un conto è quando venivi a trovarmi, ma adesso devi vedere tutto con occhi nuovi.

Beh, pensavo a queste sorelle Felicità ... dove abitano?

Nella villa davanti a casa nostra, ma adesso sono in vacanza in barca. Di solito tornano sempre i primi di agosto. E poi, mi raccomando, non chiamarle così quando le incontrerai – conclude la nonna, strizzandomi un occhio - perché quello è solo un soprannome che abbiamo inventato noi: i nomi delle cinque sorelle ricordano tutti la felicità!

 Tipo? – le chiedo, aggrottando la fronte.

- Beh, vediamo se le ricordo tutte – comincia la nonna, alzando gli occhi per aria ed enumerandole sulle dita – La più grande si chiama Gioia e fa la modella … beh, è un po’ troppo pelle e ossa per i miei gusti, però … poi c’è Gaia, che ama gli animali; poi Serena, che ha la tua età e adora la danza classica. Forse potreste essere in classe insieme a settembre. Non sarebbe male se tu ci facessi amicizia, almeno all’inizio della scuola avrai già un’amica su cui contare e …

Nonna, vai avanti, dai!

Va bene. Allora vediamo …oh, non ricordo mai bene i nomi delle due più piccole … ah sì, ci sono: Allegra, dieci anni credo, sembra una bambola di porcellana e per ultima Letizia: ha un visino tondo e due guanciottine da pizzicotti che non ti dico … eccole qui, sono tutte.

Non conosco nessuna famiglia così numerosa!

Il marito di Patrizia, Andy, voleva tanto un figlio maschio … ma dopo cinque tentativi ci hanno rinunciato!

Direi! – esclamo, affacciandomi alla finestra – certo che è davvero una gran bella villa. Devono essere ricchi, eh?

Ricchi sì, ma non oziosi. Andy si dedica anima e corpo alla sua attività: hanno un maneggio, qui in zona. Ovviamente, tutti in famiglia sanno andare a cavallo, anche se a qualcuna delle figlie non piace, ma il loro babbo è stato inflessibile in merito!

E tu come fai a saperlo?

Chiacchiere di vicinato, tesoro mio. Li conosco da tempo. Non credere che i soldi abbiano il potere di far sparire preoccupazioni e crucci: anche loro hanno giorni buoni e giorni cattivi.

Uhm, già. Una perla di saggezza da segnarsi nella memoria.

Beh, mi sa che è ora di preparare il pranzo – mi dice la nonna, controllando l’orologio - Perché non vieni a darmi una mano in cucina? Potremmo apparecchiare in giardino. Lo sai che da quando abbiamo potato la siepe si vede benissimo tutta l’area archeologica? Ti ho mai raccontato della Buca delle Fate? – continua, quasi senza riprendere fiato, e, con un gesto, mi sollecita a seguirla, in modo da continuare a chiacchierare e nel frattempo sbrigare i lavori in casa. Ha l’energia di una ragazza! Si vede che stanotte ha riposato bene, almeno lei!


"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

"Piazza Mino, Fiesole", foto di Daniela Darone

martedì 8 ottobre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Quarto capitolo

 


VIA DAL QUARTIERE

 

-        Posso chiudere, Clizia?

Rimango con lo sguardo perso nel vuoto, ma faccio comunque cenno alla mamma di sì. Può chiudere la porta. Stamani ce ne andiamo. Il camion dei traslochi è già qui sotto. I nuovi inquilini sono conoscenti dei miei genitori, con un bimbo piccolo appena nato: staranno bene qui. 

Scendo lentamente per le scale e appena apro il portone, dall’altro lato della strada, vedo Erina con suo fratello e Massimo. Gli faccio un cenno e attraverso, andando loro incontro, mentre il cuore mi va a mille. Speravo venissero, anche se ci eravamo già salutati il giorno prima in piazza.

- E dai, smetti di fare quella faccia, Clizia! Mica vai in America! Ci vedremo lo stesso, no? – fa Erina per tirarmi su, e mi abbraccia forte da togliere il respiro.

- Uhm, certo – mormoro, poco convinta – intanto quest’anno al mare non ci vedremo. Le nostre vacanze sono saltate e addio Bagno Adriano! 

- Me lo immaginavo. Senza di te non sarà la stessa cosa. Mi mancherai. Dai, però non pensarci adesso. Lo sai che forse a mio fratello il prossimo anno comprano lo scooter? Sarà uno scherzo fare un salto da te a Fiesole! Basta mi faccia dare uno strappo da lui. Vero Davide?

- Certo! Magari ci portiamo dietro anche Massimo, se riesce a convincere i suoi a motorizzarlo! – risponde lui, scostandosi il ciuffo e lanciandomi un’occhiata ridente.

Anche Massimo cerca di consolarmi con un sorriso e una pacca sulla spalla. Restiamo tutti e quattro senza dire niente, improvvisamente quasi in imbarazzo. Il babbo suona il clacson per sollecitarmi ad andare e in quel momento passa una macchina che ci costringe a dividerci, dato che stiamo ingombrando la carreggiata. Io e Davide rimaniamo vicini, stretti per caso fra due motorini parcheggiati.

-        Certo che sarà un peccato non vederti più in giro da queste parti, Clizia … proprio ora che cominciavi a diventare un po’ carina - mi sussurra Davide, con una luce sfrontata negli occhi.

In quel momento passa Grazia in bicicletta e, riconoscendoci, ci scampanella allegramente per salutarci. Poi tira avanti per la sua strada. La conosco poco, ma frequenta anche lei la nostra compagnia, e poi dalle nostre parti è conosciuta da tutti perché è bella. Prima che possa rispondere qualcosa di appropriato a Davide e prima di aver realizzato di provare una morsa di gelosia per Grazia, il nostro gruppetto si ricompone. Un ultimo abbraccio con Erina, un saluto ai due ragazzi e attraverso la strada.

“Grazia stamani era stupenda”, sento dire da Massimo. “Solo stamani? È la più bella di Santa Croce!”, gli risponde Davide, ridendo. Ecco, non mancava che questo finale per rendermi ancora più triste e gelosa. Se fossi rimasta qui, col tempo, chissà, magari mi avrebbe notata, ma a che serve pensarci adesso? Salgo in macchina e quando partiamo mi giro una sola volta a guardare quei tre. Quando la macchina sarà sparita dalla loro vista torneranno alla solita vita. Forse per Erina sarà più dura, ma non sono l’unica amica che ha! E poi ci sono le vacanze estive, riuscirà a distrarsi. Ripenso con nostalgia a tutto il gruppo di amici del Bagno Adriano. Avrei tanto voluto rivederli. Invece devo ricominciare tutto da zero. Punto e a capo. Pagina bianca. A un tratto realizzo che non ho chiesto ancora niente circa la nuova sistemazione che avremo a casa della nonna.

-      Voi due dormirete in quella che era la vostra camera prima di comprare la casa a Firenze?

-    Sì, Clizia. Sarà bello ritrovare la nostra stanza di allora: quanti ricordi! - risponde la mamma. E per la prima volta, da giorni, un sorriso le schiarisce il viso. Si vede che ripensa ai primi tempi di matrimonio: si gira a guardare il babbo con gli occhi luminosi, mentre lui è intento a guidare nel traffico dei viali, e gli fa una carezza sulla nuca.

-        Allora io dormirò nella stanza degli ospiti?

-     No, tesoro. Per il momento dormirai in camera con la nonna, perché la stanza degli ospiti è occupata: la nonna qualche tempo fa l’ha affittata ad un ragazzo.

-        Chi si è messa in casa la nonna?

-      Oh, è un ragazzo tedesco molto carino, ma un po’ particolare: pare che abbia lasciato tutto per fare il giocoliere. Si fa chiamare Cipolla come nome d’arte! Ci pensi? – conclude la mamma, scoppiando a ridere. Anche il babbo si unisce alla risata e per un attimo il mio cuore sobbalza di contentezza, perché se li vedo ridere vuol dire che non siamo poi in condizioni così disperate, no? Però subito dopo ripenso al fatto della camera e mica mi va giù di non avere più nemmeno un microscopico posto tutto per me! E poi come sarà questo tipo? 

-        Beh, potevate anche dirmelo prima!  – sbotto.

-        Abbi pazienza, Clizia - risponde il babbo, dopo un sospiro – perché per ora non ti godi il panorama? È una così bella giornata oggi! – continua, mentre imbocchiamo Via San Domenico, diretti verso le colline.

-      Staremo a Fiesole tutta l’estate? Voglio dire – mi affretto a specificare – non è che magari andremo qualche giorno in Versilia? Lo so che non abbiamo fissato niente, però …

-     Quest’anno niente vacanze, Clizia. Mi dispiace. Però Fiesole è bellissima e per te sarà come essere in vacanza. Vedrai che troveremo il modo di divertirci lo stesso. E poi ci sono le sorelle Felicità: puoi fare amicizia con loro!

-        Uhm … - mugugno – e chi sarebbero?

-    Lo scoprirai! Un po’ di suspense non ti farà male! – conclude la mamma, strizzandomi un occhio.

Stamani ha lo sguardo luminoso di sempre, ma la ruga che divide le due sopracciglia sembra più marcata. L’unica cosa che posso fare adesso è cercare di non creare problemi. Così pensando mi volto verso il finestrino e cerco di imprimermi bene negli occhi il magnifico verde delle colline, gli uliveti, le coloniche, che mentre passiamo ci regalano attimi fugaci di vita domestica.


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"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

"Strada di Firenze, particolare", foto di Daniela Darone

martedì 1 ottobre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Terzo capitolo

 


GIORGIA E PIETRO

 

Qualcosa della mamma ho già raccontato. Beh, almeno della sua infanzia e di come perse il suo babbo. Forse proprio per questo è cresciuta piuttosto in fretta, con la testa sulle spalle e senza tante fantasie. Magari è stato il suo modo di aiutare la nonna: non crearle problemi. Dal puzzle dei mille racconti messi insieme dai ricordi di famiglia, so che dopo il diploma di ragioneria rinunciò ad andare all’università per cercare un lavoro. Fu assunta come impiegata in una ditta tessile di Prato, dove aveva fatto uno stage durante la scuola.

Fare la pendolare da Fiesole a Prato tutti i giorni, anziché essere un sacrificio, le piaceva. La nonna le comprò un motorino, con cui raggiungeva la stazione, e da lì prendeva il treno. Quello stipendio la faceva sentire grande, utile e orgogliosa di se stessa.

Con lo zio Dario era protettiva, sembrava voler compensare l’assenza di un padre; è grazie alla mamma che lo zio ha potuto seguire le sue aspirazioni. Lui l’ammirava così tanto che avrebbe voluto imitarla: fare una scuola tecnica e trovare lavoro, ma la mamma sapeva che lo zio ambiva a fare altro e così lo incoraggiò a iscriversi al liceo classico e a fare l’università. “Lasciamo tempo al tempo”, rispondeva la mamma a chi le diceva che sarebbe stato meglio che lo zio trovasse presto un lavoro. Fatto sta che il tempo le ha dato ragione: lo zio è diventato un professore di italiano e adora sua sorella, che l’ha sostenuto nel trovare la sua strada. 

Sull’infanzia del babbo, invece, aleggia un mistero. La faccenda è un po’ ingarbugliata e bisogna che andiamo per ordine, anche perché io stessa ci ho impiegato diverso tempo prima di capirci qualcosa, dato che la storia era, a detta della nonna Annalena, un po’ “scabrosa”. Dunque, la “nonna” Annie venne in Italia dalla Francia per studiare. Mentre era qui conobbe un uomo ricco e affascinante, molto più grande di lei, e se ne innamorò follemente. Quando Annie si rese conto di aspettare un bambino, quest’uomo realizzò con orrore improvvisamente due cose: la prima che si era completamente “scordato” di confessare ad Annie che era già sposato; la seconda che aveva urgenti e improrogabili affari da sbrigare a migliaia di chilometri di distanza … quando si dice che il tempismo è tutto nella vita! In quattro e quattr’otto sparì di circolazione. Di lui, a parte il biasimo di tutti, non è rimasto nient’altro. Ogni tanto ci penso e provo ad immaginarmelo: fantastico su dove possa essere e che vita stia facendo, ammesso che sia ancora vivo.

Annie decise di tenere il bambino e sua sorella maggiore Therese si precipitò a Firenze per aiutarla. Therese faceva la traduttrice e poteva svolgere il suo lavoro dove preferiva; d’altro canto i miei bisnonni fecero capire alle due sorelle che preferivano che non tornassero a casa in Francia, per non dare scandalo.

Dopodiché, quando il babbo aveva poco più di un anno, Annie un giorno uscì per andare al lavoro e non tornò più. Inghiottita dal niente. Nessuno ne seppe più nulla. È rimasto questo macigno sul cuore di Therese e del babbo: Annie si allontanò di sua spontanea volontà? O qualcuno le fece del male? Alla fine l’indagine fu archiviata e il babbo fu affidato a sua zia Therese, che diventò quindi la sua nuova “mamma”. Ripresero la loro vita: Therese era decisa a dare al bambino un’infanzia serena e lui, così piccolo e abituato da sempre a vederla, non sembrò risentire in modo grave della mancanza di Annie. Poi gli anni passarono, il babbo crebbe e iniziò, dopo il diploma, a lavorare come perito tessile nella stessa ditta dove lavorava già la mamma. A quel punto Therese decise che era giunto il momento di pensare un po’ a se stessa. Pochi mesi dopo, con le lacrime agli occhi per la commozione, ma determinata a concedersi di vivere la vita che desiderava, partì per un viaggio di sei mesi in Europa. Durante la sua vacanza telefonò ogni giorno e scrisse montagne di lettere e cartoline affettuose al suo Pietro, perché sentiva una forte nostalgia per quel “figlio” lontano, ma non tornò più a vivere a Firenze. Ogni volta che tornava si fermava per qualche mese, ma poi ripartiva. Visse un po’ qua e un po’ là, ma sempre, per così dire, con la valigia sotto il letto. Ora vive da quattro anni in Alto Adige, a Castelrotto, e il babbo pensa che non si sposterà più. Un paio di volte le ha proposto di tornare a Firenze, ma lei dice che lì, in quel paesino di montagna, si è acquietato il suo spirito girovago. L’ultima foto che ci ha mandato la ritrae in un paesaggio innevato accanto ad un buon amico, come dice lei. Questo in effetti è stato l’altro mistero della vita della nonna Therese: non si sposò mai. Chissà perché. Dalla foto che ho scovato un giorno di nascosto nel comodino del babbo e che ritrae Annie e Therese, si nota, malgrado la grande somiglianza delle sorelle, che forse la più bella delle due era proprio Therese. Possibile che non si sia mai innamorata? Perché si dedicò a tal punto alla sorella nei guai? Perché dalla sua bocca non uscì mai una parola di biasimo quando Annie sparì nel nulla, lasciando il mio babbo e lei in una situazione a dir poco complicata? Una volta chiesi al babbo cosa pensasse della sua vera mamma. Lui rimase a fissare un punto lontano. “Non posso giudicare, Clizia” rispose alla fine, dopo essere stato a lungo a riflettere “preferisco pensare a lei sperando che sia viva e in pace. Io ho avuto una vita felice con Therese, anche se mi è rimasta l’ombra di mia madre sul cuore, che a volte fa male.”

Qualche mese dopo la partenza di Therese, un giorno il babbo capitò per caso nell’ufficio della mamma. Lei lavorava in contabilità e lui non aveva mai avuto occasione di vederla: il suo lavoro, anche se nella stessa ditta, si svolgeva in ambienti diversi. Si innamorò perdutamente al primo sguardo di quella ragazza dai capelli scuri e cominciò a farle una corte serratissima. Lei all’inizio non voleva prenderlo in considerazione, perché non aveva intenzione di innamorarsi di un collega e poi il babbo aveva qualche anno meno di lei: non le sembrava opportuno. Il babbo però non si fece scoraggiare e lei alla fine si decise a concedergli un appuntamento, scoprendo così che condividevano molti interessi. Iniziarono a uscire insieme e poco più di due anni dopo le campane suonarono a festa: Giorgia e Pietro uscirono di Chiesa, stringendosi per mano, felici, schermandosi da migliaia di chicchi di riso.


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"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

Foto di Engin Akyurt su Unsplash

venerdì 27 settembre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Secondo capitolo

Il Marzocco (Firenze)

 

TRAPPOLINO

 

Più tardi, a letto, mi sono girata e rigirata senza riuscire a prendere sonno. Andare a vivere con la nonna e lo zio in realtà non mi dispiace: adoro la nonna Annalena e lo zio Dario. Solo che vivono a Fiesole e io non voglio lasciare il mio quartiere di Santa Croce e tutto quello che significa. Beh, incluso Davide, ovviamente. Ho cercato di ripensare ai tragitti in macchina quando andiamo a Fiesole. In realtà non è lontano, però io ho solo tredici anni e non posso andarmene a giro da sola come mi pare e piace. Avessi almeno l’età per guidare un motorino o una macchina, allora non sarebbe la fine del mondo, ma così … lo so che potrò sentire Erina al telefono e vederla nel fine settimana, ma è inutile prendersi in giro: non sarà più la stessa cosa. L’amicizia e la confidenza sono fatte di quotidianità, non di visite saltuarie. La mia vita e le mie amicizie sono destinate a cambiare. Che malinconia … mi mancherà tutto di qui! La mia scuola, i miei amici e le passeggiate pigre e lente che facciamo nel fine settimana con i miei genitori o con la nonna e lo zio quando vengono a trovarci. Se ci penso mi sembra di sentire il suono dei nostri passi che scendono le scale. Usciti dal portone, come prima tappa, ci dirigiamo sempre all’edicola di Piazza Santa Croce, per comprare il giornale. Poi, camminando per Via Magliabechi e corso Tintori, raggiungiamo i Lungarni e la Biblioteca Nazionale. Oppure a volte arriviamo fino al mercato di Sant’Ambrogio, dove la mamma compra qualcosa di fresco da cucinare a pranzo, e usciti dalla piazza del mercato, per via del Verrocchio, facciamo un salto in Piazza dei Ciompi, al mercatino dell’antiquariato, dove il babbo e lo zio si tuffano alla ricerca di vecchi fumetti, mentre io, la mamma e la nonna ci aggiriamo fra le bancarelle. L’ultima tappa prima di tornare a casa è sempre il cartellone del Teatro Verdi, dove a volte, all’ultimo minuto, decidiamo di trascorrere la serata del sabato o il pomeriggio della domenica. 

Quando con noi ci sono la nonna e lo zio Dario, a volte parlano dell’alluvione del 1966 e dei danni che ha provocato, soprattutto nel nostro quartiere. Quando la mamma e lo zio erano piccoli abitavano qui. Il nonno e la nonna avevano un negozio di tessuti: sottosuolo e piano terra servivano da magazzino e negozio, mentre al primo piano c’era l’appartamento dove abitavano. Il 4 novembre 1966 l’Arno esondò e l’acqua limacciosa del fiume invase la città. Il magazzino dei nonni si allagò, la furia dell’acqua sventrò il negozio: persero tutto e non riuscirono a riprendersi più da quel tracollo. Purtroppo il nonno morì qualche anno dopo. La nonna, rimasta vedova, si rimboccò le maniche e riuscì a crescere da sola la mamma e lo zio. Per fortuna il nonno veniva da una famiglia piuttosto agiata e vendendo qualche proprietà la nonna riuscì a cavarsela. Fu allora che si trasferirono a Fiesole.

In queste strade c’è la storia della mia famiglia: io appartengo a questo quartiere da sempre. E poi c’è Trappolino, il leone del mio cuore, che mi protegge. Quando ero piccola la mamma inventava mille storie su di lui. Prima di andare a letto, nelle notti d’estate, ci affacciavamo alle finestre di casa nostra, per vedere se Trappolino stesse saltando sul tetto della Basilica di Santa Croce o stesse correndo sui tetti delle case o sui merli ghibellini di Palazzo Vecchio. Lo immaginavamo mentre saltava sulla cuspide, per aggrapparsi lì, a controllare la città. Quando entravo sotto le coperte, la mamma mi diceva che Trappolino, appena mi fossi addormentata, sarebbe sgattaiolato via dalla cuspide e, furtivo e veloce, dopo la sua avventura notturna, avrebbe raggiunto i piedi del mio letto e si sarebbe addormentato sul tappeto, vegliando sul mio sonno.

Ora mi domando come sarà la mia vita da oggi in poi, con il babbo e la mamma che devono fronteggiare un problema così grande. Non sempre le difficoltà uniscono: a volte le famiglie si sfasciano sotto il peso delle preoccupazioni. E poi il babbo e la mamma non avevano già avuto la loro dose di guai durante gli anni della loro infanzia? 


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"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

Foto di Daniela Darone

martedì 24 settembre 2024

"Clizia T. - Lo spessore dei sogni" - Primo capitolo

 

Veduta di Santa Croce da Villa Bardini, Firenze

FIRENZE, 12 GIUGNO 2009

 

Devi tenere gli occhi aperti. A volte, quando meno te lo aspetti, la vita si rovescia, perché gli imprevisti capitano a chiunque, anche a te che pensavi di avere tutto sotto controllo.

Clizia: che strano, con un nome così credevo di essere destinata a qualcosa di particolare. Lo zio Dario mi ha detto che il mio nome deriva dal greco e vuol dire “famoso”. È stato lui a suggerirlo ai miei genitori, poco prima che nascessi, prendendo ispirazione dalla commedia di Machiavelli e dalla Clizia del suo amato Montale. Lo zio è un professore di italiano, romantico e con la testa fra le nuvole. Chissà cosa speravano che diventassi? Famosa? Bella? Geniale? Invece non ho niente di particolare, a parte gli occhi: marroni scuri e grandissimi, con lunghe ciglia. Sono loro il mio punto forte.  E a forza di concentrarmi sui miei occhi, per assicurarmi di avere qualcosa di speciale anche io, ho imparato a usarli per guardare attentamente, ho imparato a poggiare lo sguardo sui particolari. Così lo sapevo già che a casa c’era qualcosa che non andava: la mamma sbadata, come avesse la testa altrove, la mascella contratta del babbo, i bisbigli al telefono, e poi quella novità di vedere almeno due telegiornali al giorno, noi che prima tenevamo quasi sempre la televisione spenta.

Stasera, finalmente, è venuto fuori il problema.

La scuola è finita da due giorni e sono passata in terza media. Una buona pagella, se sorvoliamo sui voti stiracchiati di matematica e scienze. Io ed Erina ce ne siamo andate un po’ a giro nel quartiere; anche se era un caldo soffocante non abbiamo rinunciato alla conquistata libertà e ci siamo dirette verso Piazza Santa Croce, il punto di ritrovo della nostra compagnia. Siamo rimaste a sedere su una panchina a guardare i turisti che affollavano la piazza e a chiacchierare, mangiando un ghiacciolo. Dopo un po’ è arrivato Davide, il fratello maggiore di Erina, con il suo amico Massimo. Gli occhi di Davide sembravano più verdi del solito e spiccavano sul suo viso abbronzato: mi hanno fatto pensare a delle foglie di menta, tanto erano intensi. Sono occhi pericolosi, mi causano sempre un certo subbuglio. Massimo non faceva che dondolarsi sulla sua bici, mentre ci guardava di sottecchi. A Erina piace Massimo e da come si comporta anche a lui piace lei, ma tutti e due fanno finta di niente: essere la sorella di Davide rende impossibile il loro amore. Non so perché funzioni così fra i ragazzi, ma d’altronde, essendo figlia unica, non ho questo problema. Nessun fratello geloso, nessuna chiacchiera a luci spente in camera per confidarsi segreti, nessuno in vacanza insieme a me pronto a giocare o a fare un giro per esplorare un posto nuovo, niente calci sotto la tavola durante la cena, niente da condividere … beh, avrebbe potuto essere divertente!

Quando sono tornata a casa ho trovato tutto come al solito: tavola apparecchiata, pentole sui fornelli e tutto il resto. Siccome da un po’ ero sempre io che tenevo la conversazione a cena, visto che i miei genitori sembravano sempre assorti in altri pensieri, ho deciso di tacere perché quel silenzio poteva diventare molto assordante e poteva far venir fuori il problema. Ovviamente li tenevo d’occhio: il babbo mangiava tenendo china la testa e la mamma si gingillava facendo vagare la forchetta nel piatto. C’era una pesantezza pazzesca nell’aria, resa ancora più intollerabile dall’afa della giornata, che non accennava a diminuire. A un certo punto ho smesso di mangiare e, sempre in silenzio, mi sono messa a guardarli. I miei occhi saltavano fra lui e lei, come se seguissi una partita di ping pong. Hanno alzato contemporaneamente la testa e mi hanno guardata.

-        Ci sono due o tre problemi da risolvere, Clizia – ha iniziato la mamma.

-        Solo due o tre? – ho tentato di scherzare, per smorzare quel tono grave. Loro sono rimasti seri.

-   Arrivo dritta al punto, tesoro, mi sembra meglio: la ditta dove lavoriamo è fallita. Tutti i dipendenti sono stati licenziati. Era da un po’ che le cose non andavano bene, ma speravamo sempre che potessero migliorare. Invece non è stato così, purtroppo - ha detto la mamma, senza smettere di guardarmi negli occhi. 

-     E me lo dite così? – sono sbottata, mentre il cuore accelerava i battiti e nella mente prendeva forma l’idea confusa di essere nel bel mezzo di un punto dove ci sarebbe stato un prima e un dopo – Ma come è possibile? Non avete provato a risolvere le cose?

-        La situazione era davvero troppo compromessa. E poi, Clizia, non lo ascolti il telegiornale? È da un po’ che dicono che questa crisi è la più grave dopo la Grande Depressione del 1929. Quando parlano della sofferenza del settore manifatturiero, stanno parlando anche di noi – ha detto il babbo, con un sospiro - Adesso dobbiamo voltare pagina e riprogettare la nostra vita. Ne ho parlato a lungo con la mamma e la nonna e abbiamo pensato che, come primo passo, lasceremo questa casa prima possibile. 

-       Lasciare la casa?! Per andare dove? E poi, che c’entra la nonna? – ho chiesto, mentre un fiume di mille altre domande mi affollava la testa. Sentivo che sarei scoppiata a piangere da un momento all’altro. Improvvisamente mi mancava la terra sotto i piedi. 

-      Clizia, ci facciamo un sacco di domande anche noi e non siamo sicuri di avere una risposta per tutte. Facciamo una cosa alla volta e ce la faremo. La sfangheremo, Clizia, diciamo davvero – ha continuato il babbo, accarezzando i miei capelli corti - Solo che ci devi aiutare anche tu.

-        Io? Come posso aiutarvi? Ho solo tredici anni! – ho risposto singhiozzando, col viso rosso.

-    Devi solo adattarti alla nuova situazione. A breve andiamo a stare dalla nonna e affittiamo questa casa. Lo sai anche tu che dobbiamo finire di pagare il mutuo. È l’unica soluzione, almeno per ora.

-       Allora lasceremo tutto! Trappolino, Erina, il nostro quartiere, e … e la scuola?

-        Frequenterai la terza a Fiesole.

-        Ma …

-        È così, Clizia. Nessun ma, per favore. Non ti ci mettere pure tu! – ha concluso il babbo.

Il suo tono non ammetteva repliche.


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"Clizia T. - Lo spessore dei sogni", di Daniela Darone

Foto di Daniela Darone



sabato 1 giugno 2024

"Terzo piano con ascensore" - Seconda e ultima parte

 Questa volta non rientrerò in casa, non farò finta di nulla, perché ho paura di questa spirale di ostilità che cresce e rischia di degenerare.  

-        Mi soffochi col tuo amore, Lara! Diventi odiosa! Mi stai sempre addosso, non mi lasci vivere! – le urla.

Un attimo dopo un fragore di vetri rotti mi strappa un grido, mentre qualcosa vola giù dal loro terrazzo e si schianta nel giardino al piano terra, a pochi centimetri da un grasso gatto: il vaso di ciclamini bianchi è un ammasso di cocci rotti, terra sparsa e fiori scomposti. Alcune finestre si aprono, la gente si affaccia, le voci si rincorrono. 

Sento la porta del loro appartamento che sbatte, qualcuno che corre giù per le scale. Mi precipito come posso davanti alla porta di Lara, suono il campanello e intanto busso, la chiamo. Mi apre quasi subito e la scruto, allarmata: è pallida, ma non è ferita, sta bene.

-        Non è niente – mi dice lei, con voce piatta, ma è scossa da tremiti.

-        Vieni un attimo da me. Ti faccio un tè.

-     No, grazie – mi risponde con uno sguardo allucinato - Mi serve solo un cacciavite. Me lo presta?

 


A metà pomeriggio guardo dallo spioncino. Vedo Lara sul pianerottolo che svita la targhetta di ottone. Ai suoi piedi una grossa valigia. Dopo un attimo viene verso la mia porta e mi suona il campanello. Aspetto un po’ prima di aprire, mica voglio che pensi fossi lì a spiarla, e faccio la faccia più sorpresa che mi riesce.

- Sono venuta a restituirle il cacciavite – e poi, stringendosi nelle spalle, continua – e a salutarla.

- Te ne vai?

- La forza la deve trovare da sé. E anch’io, forse, ho una dipendenza: affettiva, verso di lui. La butta via lei, per favore? – mi chiede, porgendomi la targhetta coi loro nomi incisi - Qui non voglio lasciare proprio nulla di me.

Lo scricciolino insicuro, in questo momento, è sparito. Lara è piena di rabbia: è quella che la tiene su e le dà la forza. Ormai l’amore si è rotto, ha lasciato spazio a un inizio di repulsione. 

-        Ci penso io – le dico, prendendo la targhetta – Sai dove andare? Puoi stare un po’ da me, se vuoi.

-      No, grazie. Ho bisogno di andar via di qui … - risponde, mentre si china a raccogliere un sacchetto. - Le lascio questo ... è tutto sciupato, ma mi dispiaceva buttarlo … - dice, porgendomi un foglio di giornale accartocciato dove ha raccolto i resti del vaso di ciclamini che le avevo regalato.

La voce sembra mancarle un attimo, magari la paura si fa strada e allenta il coraggio. Io invece voglio che rimanga salda nella sua decisione, che non vacilli sotto il peso di una sofferenza feroce. Prendo il cartoccio e rimango ad osservare i cocci del vaso, la poca terra raccolta, i fiori sciupati e la loro radice tuberosa.

-        Certo che a prima vista sembra proprio malconcio – rispondo - però, guarda questa strana patata bitorzoluta. La vedi? È la radice del ciclamino, la sua riserva di sostanze nutritive. Al ciclamino non importa se perde i suoi fiori, se il caldo estivo lo secca: sa che può sopravvivere e trovare il modo per germogliare e rifiorire in una pianta rigogliosa e forte. Ha bisogno solo di un buon terreno e di un ambiente luminoso. Sono sicura che a febbraio questo ciclamino fiorirà nuovamente, regalandomi un coloratissimo inverno.

Lara arrossisce un po’ e mi stringe in un abbraccio, prima di salire in ascensore. 



Mi affaccio alla finestra per seguirla con lo sguardo e mi rendo conto che il tempo è cambiato. Il cielo terso di stamani ha lasciato il posto a dei nuvoloni neri che promettono tempesta. Lara cammina svelta trascinando la valigia. La sua coda di cavallo che dondola è l’ultima cosa che vedo prima che giri l’angolo.


Testo di Daniela Darone
Prima immagine: Foto di Vlada Karpovich www.pexels.com
Seconda immagine: Foto di Nick Karvounis su Unsplash

venerdì 31 maggio 2024

"Terzo piano con ascensore" - Prima parte

 


Lara e Luca, i nuovi vicini, all’inizio erano solo una targhetta di ottone sulla porta dell’appartamento accanto al mio, sul pianerottolo del terzo piano. Non riuscivo mai a incontrarli e mi scocciava suonare il campanello per presentarmi e dar loro il benvenuto. Lo so che sono ridicola, ma alla mia età vivere da sola, avendo un appartamento vuoto a fianco, mi metteva tristezza. Solitudine e acciacchi: sapete quanto sono lunghe e noiose le giornate, per me? Certo, posso andare al centro anziani, ma da quando l’Armida è morta ho smesso di frequentarlo. Armida era l’unica con cui mi trovavo bene perché, malgrado l’età, era piena di entusiasmo; gli altri non fanno che lamentarsi delle loro malattie: a chi verrebbe voglia di passare anche solo un’ora con quei vecchi bacucchi? A me piace stare vicina ai giovani, per assorbire la loro energia. Quindi potete capire com’ero stata contenta quando erano arrivati i nuovi vicini! Anche senza averli visti, immaginavo fossero due ragazzi: ce la vedete una coppia di mezza età che mette sulla porta la targhetta coi loro nomi e ascolta la musica a tutto volume?

Mi capitava di stare con l’orecchio teso per percepire i rumori che venivano da casa loro, per cercare di capire quando stavano per uscire, in modo da simulare un incontro fortuito. Mi vergogno a confessarvi che sono stata pure con l’occhio allo spioncino della porta, finché potevo resistere a stare in piedi senza stancarmi troppo. Poi, a un certo punto, ho smesso di dar loro la caccia e ho deciso di andare diritta al punto. Ho comprato un bel vaso di ciclamini dalla fioraia e l’ho lasciato davanti alla loro porta di casa, con un bigliettino di benvenuto. Speravo mi suonassero il campanello, invece ho trovato solo un foglietto nella cassetta delle lettere: “Grazie. Lara e Luca”. Perché la gente oggi nei condomini faccia quasi fatica a salutarsi, io non lo capirò mai. Quando ero giovane organizzavamo delle feste in casa, dove si invitavano i condomini: si portava qualcosa da mangiare, si mettevano i dischi e si ballava. Erano divertimenti semplici, ma eravamo felici. Dovreste provarci, vi rendereste conto che la gente è fatta per star con la gente, non per vivere da eremiti. Comunque, qualche giorno dopo ho intravisto lui in terrazza: non volevo sbirciare, però i nostri balconi son divisi solo da un muretto e mentre stendevo i panni l’ho notato. Un ragazzo alto, moro, piazzato bene. Fumava e guardava lontano, con le cuffiette nelle orecchie. Non so se mi ha vista, ma non ha mosso un muscolo. Io gli ho pure dato il buongiorno, ma forse non ha sentito, perché teneva la musica così alta in quei cosi, che riuscivo a sentirla pure io! E poi forse non stava bene, perché gli tremavano le mani.

Lei invece ho iniziato ad incontrarla in ascensore, qualche tempo dopo. Era uno scricciolino timido con due occhi scuri scuri e una massa di capelli neri. Mentre salivamo al piano, io le sorridevo e lei sfuggiva lo sguardo, imbarazzata, come succede di solito con gli sconosciuti in ascensore, insomma avete capito. Solo che, a forza di incontrarci, alla fine abbiamo cominciato a scambiare due parole, niente di che, le solite banalità, mentre quell’ascensore malandato ci portava al terzo piano. Dall’accento avevo capito che non era di qui, e avrei voluto chiederle se si era trasferita per motivi di studio, di lavoro o d’amore, sapere qualcosa in più di loro, fare un po’ di amicizia, ma si capiva che lei era molto riservata e poi i giovani mica fanno amicizia con gli anziani!    




Ho cominciato a capire che c’era un problema fra loro una notte che, come al solito, non riuscivo a prendere sonno. Mi sono affacciata alla finestra per prendere un po’ d’aria e li ho visti. Lei cercava di sostenerlo, lui si appoggiava a lei, strascicando i piedi, e quasi la faceva cadere, tanto si abbandonava. Camminavano pian piano verso il portone quando, a un tratto, Luca si è fermato, ha armeggiato un po’ coi pantaloni e ha urinato sul palo del lampione. Lei ha fatto come per alzare la testa, per controllare che non ci fosse nessuno a osservarli, così mi sono ritirata svelta, per non farmi vedere. Sono rimasta nascosta, col cuore che mi batteva forte: mi son detta che forse erano usciti e lui si era sentito male o che aveva bevuto un bicchiere di troppo. Può capitare, no? Quando ho sentito il portone che sbatteva, ho trotterellato fino allo spioncino per vederli entrare in casa, ma appena sono usciti dall’ascensore lui è crollato steso sul pianerottolo. È rimasto in terra e non provava nemmeno a rialzarsi: se ne stava lì a sghignazzare, mentre lei tentava di chiudergli la bocca, lo scongiurava di far piano. China su di lui, gli bisbigliava nell’orecchio, accarezzandogli i capelli. Pian piano si deve essere addormentato. Lei allora si è appoggiata al muro e si è messa a piangere. Lì per lì volevo aprire la porta e aiutarla, ma non sapevo cosa dirle. Di sicuro non avremmo avuto la forza di sollevarlo e portarlo in casa. 

Il giorno dopo, mentre facevo colazione, li ho sentiti litigare. Lui aveva la voce cattiva, piena di rabbia. “Smetti di controllarmi!” ha ringhiato, prima che la musica inondasse il loro appartamento e coprisse tutto. Ho poggiato l’orecchio al muro, santo cielo, perché stavo in pensiero per Lara. “Non sono io a controllarti. È l’alcool che ti controlla! Non ti amo quando questo mostro ti divora”, diceva lei. Sono andati avanti a discutere un bel po’. Cosa usciva dalla bocca di lui … avreste dovuto sentirlo! Non ve lo dico perché mi vergogno a ripetere certe parole … A me è venuto un groppo alla gola a pensare a lei: a quella musica che forse metteva per nascondere i litigi e al suo tono accorato, che ignorava la volgarità di Luca. 

Quel giorno stesso ci siamo incontrate in ascensore. Ci siamo scambiate un saluto, ma poi siamo rimaste in silenzio, solo che questa volta lei non ha sfuggito lo sguardo. Forse voleva capire se avevo visto o sentito qualcosa, e così abbiamo avuto un dialogo muto, fatto di sguardi, che però per me son stati eloquenti, e se non fosse stato per il tema triste sarebbe stata una bella esperienza di comunicazione umana, di cui siamo capaci, ma che abbiamo dimenticato.

-          È duro vivere così – mi hanno detto i suoi occhi cerchiati e il visino smunto.

-        Come hai fatto a finire con un tipo del genere, scricciolino? Sono preoccupata, con tutto quello che si sente dire … Sarebbe capace di farti del male? Ti manipola? Ti mente?

-        A volte anche i bravi ragazzi si perdono, per le ragioni più diverse … e quanto gli scioglie la lingua quel veleno!

-        E tu? Minimizzi, lo accudisci, ti prodighi e sbagli a non chiedere niente per te.

Prima che ognuna di noi prendesse la sua strada, le ho parlato.

-        Sai, mi piace quel disco che mettete spesso.

Ha abbozzato un sorriso: avreste dovuto vedere come era dolce quel visino!

-        Mi scusi, forse l’ho disturbata. Terremo la musica più bassa.

-        Macché! Per godersi il silenzio ci sarà tutta l’eternità. E come si chiama il tuo disco?

-        È un album di Brent Faiyaz: “Wasteland”.

-        Uh, gli stranieri non li conosco. E di che parla?

-        Parla della vita … - ha detto, dopo un attimo di esitazione - e per me è un monito.

Così, ogni volta che sento quella musica, tendo l’orecchio. A volte sento Lara che canta e so che va tutto bene, più spesso la musica è più alta e allora sento lui che si lamenta, porte che sbattono, suppliche, il fracasso di qualcosa che si rompe, promesse, smentite. Fino a quel mattino.

È un mattino bellissimo, con un cielo luminoso. Mi butto sulle spalle lo scialle ed esco in terrazza a bere il mio caffè. 

Il tono rabbioso di Luca squarcia la serenità del cielo terso. 


Continua ... 


Testo di Daniela Darone

Prima immagine: Foto di Helen Zahray su Unsplash

Seconda immagine: Foto di Andrew Neel su www.pexels.com