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venerdì 16 febbraio 2024

"Quei giorni ai giardini delle Tuileries", di Daniela Darone

Foto di  Céline da pexels.com


Mia madre era convinta che nella vita si dovesse aspirare all’eccellenza. Lei ne era la prova vivente: giornalista e scrittrice, fra i tanti impegni aveva trovato anche il tempo di sposarsi e avere una figlia. Solo che la famiglia che si era creata non le bastava per essere felice e, dopo qualche anno, aveva lasciato mio padre per un uomo con molti anni in più di lei, ma di successo. Da quel momento ero diventata la bambina con la valigia. 
Io e la mamma ci eravamo trasferite a Parigi, a casa di Adrien, il suo nuovo compagno. Tanto ero stanziale nei periodi che passavo con mio padre in Italia, che si sentiva in dovere di darmi stabilità, tanto mi sentivo una girovaga durante i periodi passati con mia madre. Lei era vulcanica e instancabile: anche quando tornava a casa, dopo un viaggio di lavoro, scarmigliata, con il viso stanco e deperito, conservava sempre gli occhi accesi dalla passione bruciante per ciò che faceva. 
Quando lavorava a casa e tentavo di raggiungerla nel suo studio, magari tenendo in mano un quaderno con un esercizio difficile, interveniva la cameriera: maman non poteva essere disturbata. Per stare con la mamma avevo capito che dovevo attendere pazientemente il mio turno. 
Cominciai così a chiudermi sempre più nel mio mondo di fantasia, per colmare l’assenza emotiva e fisica di mia madre, e a passare interminabili ore davanti alla televisione. Con la televisione era tutto immediato, non dovevo sforzarmi: le immagini scorrevano e io dovevo solo stare lì davanti a farmi inondare. 
Ogni tanto la mamma apriva rumorosamente la porta dello studio, si precipitava in camera mia, come fosse una bambina, e con impeto esclamava: “Adele! Andiamo a fare una passeggiata ai giardini delle Tuileries a caccia di qualche personaggio?”. Era il nostro gioco preferito. Mi faceva indossare un bel vestitino e delle scarpette eleganti, poi mi pettinava i miei lunghi capelli scuri e me li acconciava con una treccia alla francese: adoravo il tocco delle sue mani sui miei capelli. Uscivamo di casa per mano e andavamo a passeggiare ai giardini delle Tuileries, e in quei pomeriggi la mamma era completamente mia: testa, cuore e anima li dedicava a me. 
“Faremo il nostro ingresso trionfale da Place de la Concord”, mi sussurrava la mamma, facendomi l’occhiolino. Il nostro “gioco” consisteva nel passeggiare nel parco e guardarci intorno, per scovare personaggi curiosi, atteggiamenti particolari, situazioni stravaganti che potevano verificarsi fra le varie persone che affollavano il giardino. Fantasticavamo su chi potesse essere la buffa signora col cagnolino, la ragazza che ondeggiava sui tacchi, il giovane con un mazzo di fiori in mano. Spesso collocavamo questi personaggi in un tempo futuro o ci divertivamo a immaginarli come se fossero vissuti in epoche antiche. Mi piaceva tutto di quei pomeriggi: il suono dei nostri passi sul ghiaino, osservare le nuvole gonfie nel cielo, vedere i bei palazzi alteri e la tour Eiffel sullo sfondo, i piccioni sulle teste delle statue maestose, le persone che si rilassavano intorno ai laghetti, gli arabeschi disegnati dalle ombre dei cancelli. A volte portavamo una barchetta da far galleggiare sul laghetto, o ci fermavamo al teatrino dei burattini, divertendoci un mondo ad assistere allo spettacolo, o la mamma mi pagava un giretto sugli asinelli. Ci attardavamo fino a sera inoltrata, nella bella luce del tramonto, e facevamo ritorno a casa tardi, dopo aver cenato insieme, io e lei soltanto: poteva essere un semplice panino acquistato ad un chiosco, qualche crepes in un ristorantino bretone, o un ristorante di classe, in certi giorni speciali. La scelta restava affidata a ciò di cui avevamo voglia sul momento. Solo che poi la giornata finiva e già sapevo che i giorni a seguire mi avrebbero riportata al solito tran tran solitario.
Una sera mia madre mi aveva trascinato a una cena, dove ci sarebbe stato anche un politico che voleva conoscere. Immaginavo che sarei stata l’unica bambina in quella casa, ma l’alternativa era restare con la babysitter, così ci andai. 
La casa era lussuosa: le stanze erano enormi e illuminate da originali lampadari. Me ne stavo nascosta dietro mia madre e Adrien. Lei quella sera indossava un vestito lungo e attillato che le fasciava troppo la pancia. All’inizio la padrona di casa non si era accorta di me ma, quando mi vide, mi regalò un sorriso compiaciuto. Disse che ero deliziosa. Mia madre, temendo non avessi capito, tradusse le parole, irritandomi. 
La signora Carla era italiana, si era trasferita a Parigi tanti anni addietro per seguire il marito, che era stato nominato direttore di una banca. Da quel momento mi parlò sempre in italiano, per mettermi a mio agio. Disse che era felice di poter parlare con qualcuno nella sua lingua madre. Non rivelai a nessuno che in realtà capivo benissimo il francese e che avrei potuto sostenere una conversazione in quella lingua. Non vivevo forse anch’io a Parigi da qualche anno? È vero che frequentavo una scuola italiana, ma tante attività si svolgevano in francese e le lunghe ore passate davanti alla televisione avevano contribuito a farmi imparare bene la lingua! Non avevo voti brillanti a scuola, forse era per quello che gli altri pensavano sempre di dovermi facilitare, ma non ero per niente stupida. Semplicemente non ero attratta dai libri e dallo studio. Mi distraevo spesso: era facile lasciarsi catturare dalla luce del sole fuori dalla finestra dell’aula, dal cinguettio di un uccello, da una mosca che ronzava, da una matita che cadeva. Ero una bambina che si sentiva sola, e sicuramente all’inizio le difficoltà con la lingua avevano accentuato il mio isolamento, dovuto già a un carattere timido e riservato. Avevo un’unica amica, Camille, che condivideva con me la passione per i cartoni animati. 
Durante la cena sedevo, invisibile, fra mia madre e Adrien: lei era occupata a parlare con il politico, mentre Adrien conversava sugli ultimi film di successo con un altro commensale. Così, per distrarmi, mi misi a osservare le persone attorno a quel grande tavolo. I miei occhi vagavano da un ospite all’altro, cercando di determinarne il carattere, attribuendo loro lavori improbabili, vestendoli da romani o da uomini del paleolitico con la mia fantasia. Potevo osservarli con calma, senza sembrare sfacciata, e ridacchiare divertita quando li mettevo in ridicolo perché, ogni volta che mi concentravo su un volto, non incrociavo mai lo sguardo di nessuno. Quando però sbirciai la padrona di casa, incontrai i suoi occhi gentili che danzavano curiosi sul mio viso. Mi sorrise e mi sussurrò che fra poco avrebbero servito il dolce e che presto avrei potuto alzarmi. Prima che le cameriere portassero il caffè, Carla si avvicinò alla mia sedia e mi porse la mano. “Ti va di vedere un film?”, mi domandò. Accettai. Mentre la seguivo, colsi uno stralcio di conversazione fra una signora e mia madre. “Sei splendida cara, quasi non si direbbe che fra qualche mese avrai un bambino!”. Rimasi turbata, ma non lo diedi a vedere. In fondo, col cuore, sapevo già che la mamma non era ingrassata: dentro di lei stava crescendo un bambino, qualcuno che era ancora così piccolo, ma che riusciva già a farmi sentire di troppo. Se anche mio padre si fosse risposato e avesse avuto un figlio, di chi sarei stata? Sarei diventata un’appendice scomoda sia per una coppia che per l’altra. E comunque non mi andava di dividere la mamma con un altro bambino. 
Io e Carla entrammo in un salottino. Lei fece partire la videocassetta e le immagini presero a scorrere sullo schermo: sembrava un film carino, con un simpatico orsetto. Io però ero ancora turbata e i miei occhi vagavano inquieti nella stanza, incapaci di concentrarsi sulla televisione. Carla forse se ne accorse, perché si avvicinò alla libreria e ne estrasse un libro per bambini, con gli angoli arrotondati. Me lo porse. Rimasi a guardarla, un po’ incerta. 
“So che è solo un libro”, mi disse sorridendo, “e magari non ti piace nemmeno leggere, però è una storia bellissima. Te lo regalo. Io l’ho letto così tante volte che lo so a memoria e sono sicura che lui si è davvero annoiato a stare in questa libreria a prendere polvere e che vorrebbe raccontare la sua storia anche a te”.
Mi feci sfuggire una risatina e la tensione di poco prima si stemperò. Presi il libro che mi porgeva, mormorandole un grazie. Il volume aveva una copertina cartonata, piacevole al tatto. L’illustrazione, in rilievo e a vivaci colori, rappresentava una bambina con un buffo cappello, che correva dietro a un cagnolino. Desiderai di essere io quella bambina. “Preferirei rimanere qui con te, a farti compagnia, ma devo tornare dai miei ospiti”, mi disse Carla, stringendosi nelle spalle. “Tu mettiti comoda e vieni a chiamarmi, se hai bisogno di qualcosa”, concluse, chiudendo la porta con un sorriso. 
Non appena fui sola ripresi a guardare la televisione, tenendo il libro in grembo. Senza accorgermene avevo iniziato a passare la mano sulla copertina in modo quasi ritmico, sembrava la accarezzassi, seguendo i contorni delle figure. Non so come, invece di continuare a guardare la televisione, mi misi a sfogliare il libro, ammirando le illustrazioni una a una. Poi tornai alla prima pagina e iniziai a leggere. 
Fu così che mi trovò mia madre qualche ora dopo: immersa nella lettura. Ero nello stesso identico posto, dove mi ero seduta per guardare il film, ma in qualche modo non ero più lì. Avevo seguito quella simpatica bambina nel suo mondo: avevo corso con lei dietro al cucciolo, ci eravamo sedute sotto un albero frondoso a fare un picnic prelibato, ci eravamo sporte lungo i bordi di uno stagno a vedere i girini per poi passeggiare in uno sterminato campo di papaveri: come erano sporche adesso le nostre scarpette eleganti! Ma non c’era tempo di occuparsi di simili sciocchezze, adesso che eravamo giunte a una grotta oscura che volevamo esplorare ... 
La voce della mamma ruppe l’incantesimo. 
“Pensavo di trovarti addormentata”, mi disse, spostando gli occhi dal mio viso al libro che tenevo sulle ginocchia. Aveva l’espressione sorpresa. 
“Alla bambina deve piacere moltissimo leggere”, disse Carla, sorridendo. 
“Veramente no, non l’ho mai vista con un libro in mano, se non sotto tortura”. 
“Veramente sì, mamma. Mi piace leggere! Sono quasi a metà romanzo!”, risposi, sentendomi ferita. 
“Allora torna presto a trovarmi, Adele! Così possiamo commentare il libro insieme quando lo avrai finito e mi dirai se ti è piaciuto!”, esclamò Carla. 
“Volentieri signora. Grazie per questo dono così bello”, le risposi compita, in francese. Mi alzai e mi rassettai la gonna, e stringendo il volume fra le mani mi avviai verso l’uscita. 
“Una mente brillante, la tua Adele. Ho idea che ti stupirà … Chissà se l’allieva supererà la maestra …” sussurrò Carla alla mamma. 
“E’ sempre auspicabile che sia così”, rispose lei in un soffio. 
Cominciò così il mio amore per i libri e una nuova intesa fra me e la mamma. Carla aveva fatto due piccole magie. Era riuscita a “vedermi” per come ero veramente. Alcuni adulti hanno il dono di comprendere i bambini e di entrare in sintonia con loro, naturalmente: Carla era uno di questi esseri speciali. Sono grata alla buona sorte di averla incontrata e aver potuto continuare a frequentarla anche in seguito. La seconda magia di Carla fu di avermi regalato un libro che, per la prima volta, mi aveva fatto sentire quell’oggetto come desiderabile. Non era solo una storia avvincente, era un oggetto realizzato con cura e con una carta di pregio. Era qualcosa di desiderabile anche esteticamente. 

Foto di Olia Danilevich da Pexels
Cominciai a leggere, moltissimo. Una volta spenta la televisione, fui ammessa nello studio della mamma. Mentre lei scriveva, io stavo sdraiata sul piccolo divano e divoravo libri su libri. Scoprii che leggere metteva in moto parti stimolanti della mia mente: l’immaginazione doveva compensare la mancanza di alcune informazioni, potevo dare un volto ai personaggi, immaginare possibili scenari futuri alla fine delle storie, fare deduzioni, provare un ventaglio infinito di emozioni. Era un atto molto più creativo di quello di starsene davanti a uno schermo. Ogni tanto i miei occhi si alzavano sulla mamma e la sorprendevo a guardarmi, sorridente, ogni tanto invece la scorgevo con la fronte aggrottata a pestare sui tasti del computer, quasi con furia. A volte partiva e, se era possibile, prima di partire mi portava in Italia da mio padre. Però mi scriveva e mi telefonava ogni giorno. Sembrava che improvvisamente avessimo molte più cose di cui parlare. Credo che prima della mia “trasformazione” la mamma cercasse una complicità intellettuale con me, che non riusciva a raggiungere. Forse era semplicemente delusa dal fatto che sembravo non essere minimamente interessata a tutto ciò che lei amava di più. 
Oggi che ho qualche capello bianco riesco a vedere le cose con maggior chiarezza. Quello che il mondo, e i figli, chiedono a una donna, è di incarnare un essere perfetto: diventare madri richiede, istantaneamente, di mutare pelle. Una donna non è mai nel posto giusto. Se è al lavoro, qualcuno osserverà che dovrebbe essere con i figli. Se è con i figli, la rimprovereremo di non essere al lavoro. Se ingrassa, non dovrebbe lasciarsi andare così! Se va in palestra, non farebbe forse meglio a occuparsi di cosa succede in casa? Trovare un equilibrio è difficile. Mia madre mi ha insegnato a cercare, nella vita, una passione. Mi ha insegnato che una donna non è solo una madre, non solo una moglie, ma una persona con delle aspettative e dei desideri. Certo, da piccola mi sarebbe piaciuto stare più tempo con la mamma, ma lei non sarebbe stata felice. E chissà, forse neanche io lo sarei stata, accanto ad una mamma che mortificava le sue aspirazioni. Sarebbe stato preferibile che non diventasse madre? Che non si legasse a nessuno? Forse, ma non penso che a un uomo che voglia realizzarsi nel lavoro chiederemmo mai un sacrificio simile. Credo che quel proverbio africano, che recita che per crescere un bambino occorra un intero villaggio, sia profondamente vero. 
Da parte mia, ricordo quei giorni ai giardini delle Tuileries come i più belli della mia infanzia.

Foto di Dwain Norsa da unsplash