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giovedì 18 aprile 2024

"Glissade" - seconda e ultima parte

 



Quell’esperienza mi regalò una visione inedita della danza: richiedeva di mettere in gioco se stessi, il proprio mondo interiore, lasciando libero il corpo di esprimersi senza costrizioni, leggi o canoni. Fu liberatorio e appagante, ma non c’erano scuole di danza nella mia città che seguivano quel metodo, e dovetti quindi considerare quello stage solo come una piacevole parentesi.

Sei mesi dopo Blair ripartì per l’America. Fu dura non averla più a casa con noi: la sua allegria riusciva sempre a contagiarmi e a farmi vedere le cose con più leggerezza. Mi ero così affezionata a lei che non volli più nessuna ragazza alla pari in casa nostra. 

La mia vita, negli anni che seguirono, sembrava viaggiare su un binario ben definito sotto la guida e gli insegnamenti di Anna, malgrado i dubbi che spesso mi assalivano e che non riuscivo a sciogliere. La  scorsa estate però, casualmente, lessi sul giornale che Nath Taylor, dopo nove anni, era di nuovo in Italia, per un workshop estivo di sei giorni che si sarebbe tenuto a Napoli.

Io, Lara e Lapo partimmo: loro visitarono la costiera amalfitana, io rimasi a Napoli per partecipare al seminario. Ritrovai di nuovo quella gioia di danzare che avevo provato da bambina a quello stage. Prima di ripartire mi chiesero di lasciare un recapito: in autunno ci sarebbe stata un’audizione a Milano per l’ammissione a un anno di studio alla scuola di New York. Volevo partecipare? D’istinto risposi di sì.





L’edificio dove si terrà l’audizione è in una zona industriale di Milano, un ex fabbrica dismessa trasformata in centro sperimentale.

Sono arrivata in ampio anticipo, già truccata con cura e con i capelli sistemati con uno chignon che lascia completamente scoperto il collo e il viso. Voglio avere il tempo per fare un po’ di stretching e riscaldare i muscoli, fare degli esercizi di respirazione e visualizzazioni positive. Indosso le mie scarpette da punta rossa e un tutù nero e corto, comprato per l’occasione.

La spazio dove ci esibiremo è enorme: tutti i candidati dovranno ballare contemporaneamente, improvvisando su musiche che sceglierà il direttore della scuola di New York. Mi chiedo come potrò farmi notare in quella situazione. Non so cosa aspettarmi. Cerco di concentrarmi e di allontanare ogni pensiero negativo. Ci chiamano. Siamo pronti a iniziare. Cerco di non pensare a tutti gli altri ballerini, cerco di immaginarmi in uno spazio vuoto, dove far fluire il mio intimo. Chiudo gli occhi e tento di imporre al mio respiro un ritmo profondo. La musica parte e inizio a ballare. Adatto i movimenti della danza classica, quelli che mi sono più familiari, a una musica moderna. Chiedo al mio corpo di parlare, di essere fluido e padroneggiare il movimento, nascondendo ogni sforzo, curando la bellezza delle linee, di avvitarsi verso l’alto come se non avesse peso. Nelle orecchie ho la musica, nella mente il film delle mie lunghe ore di allenamenti, nel cuore un desiderio di fiorire, di esplodere, inondare questa sala di tutte le mie emozioni, ma non so come, mi accorgo che non so come. Forse i miei movimenti sono perfetti, ma non basta questa perfezione, lo sento, lo sento che ci vorrebbe altro, altro, altro, altro …  Nonostante abbia cercato di prepararmi per questa audizione, non è facile volare via dalla gabbia del rigore, estendere il movimento, sentirmi libera di osare di esprimere il mio mondo interiore. All’improvviso mi ritorna in mente un airone che vidi volare sul fiume anni fa: il suo volo rapido, potente, maestoso, le lunghe zampe tese, il collo flessuoso … come allora rivive in me una strana suggestione che mi spinge a concentrarmi sul centro del mio corpo e sviluppare il movimento dall’energia che mi sento dentro. La musica non è più qualcosa che sento, ma risuona dentro di me. Abbandono l’impostazione rigida del classico e inizio a esplorare il movimento: nascono linee spezzate, vibrazioni, movimenti asimmetrici, forze che si attraggono e respingono, contrazioni e distensioni. Pensavo di avere di fronte due opzioni, di dover scegliere una o l’altra, ma in realtà c’è una terza possibilità: essere me stessa, con tutto il mio vissuto classico e la voglia di esplorare il contemporaneo. Il mio volto lascia trasparire tutto adesso, non nascondo più nulla, mi lascio andare. Eccomi! Sono qui, finalmente! Sono io: il movimento che si unisce alla mia interiorità. Mi sto donando: ballo usando tutto il corpo, lo spirito, la sensibilità. Forse non sono perfetta, ma sono emozione, sono bellezza, sono arte.

La musica si interrompe e mi risveglio dal mio incantesimo. Mi sento il cuore martellare nelle orecchie. L’audizione è finita, e in qualunque modo sia andata va bene così, posso uscire a testa alta. Faccio un inchino. Vedo dei piedi che mi si avvicinano.

It looks like you’re hungry.

Alzo la testa. Davanti a me c’è Nath Taylor.  

I’m starving, Sir.


Testo di Daniela Darone

Prima foto in alto: di Ezkol Arnak - www.pexels.com

Seconda foto: di Fabrício Lira - www.pexels.com

martedì 16 aprile 2024

"Glissade" (prima parte)

 


Ho confessato ad Anna che non ho inviato la domanda per il concorso per il corpo di ballo indetto dal Teatro alla Scala. Ho fatto scadere il termine. In realtà la domanda l’avevo compilata, bastava solo che cliccassi sul tasto invia, invece ho spento il pc e sono andata a letto. Mi sono detta che alla fine, se cambiavo idea, potevo alzarmi e inviarla entro la mezzanotte. Ho guardato qualche video su Youtube e mi sono addormentata. La mattina dopo, al risveglio, non ho provato nessun rimorso; solo un lieve disagio al pensiero che avrei dovuto avvertire Anna.

Quando gliel’ho detto mi ha trafitto con uno sguardo che era un amalgama di collera, risentimento e delusione. Ho visto la sua mandibola contrarsi: mi sono sentita una preda. Reggere il peso della pressione emotiva di Anna è davvero stressante: credo che da troppo tempo lei stia reprimendo la rabbia per quello che le è successo, ma questo le fa reprimere anche la tenerezza, la pazienza, l’empatia. Mi ha presa per un braccio, accompagnandomi alla porta.

-       - Vattene – mi ha sibilato, gelida - Eri perfetta nel primo atto di Giselle, che era prova d’esame! Ti perderai, Valeria, oh se ti perderai … - ha concluso con un sorriso amaro, che l’ha fatta sembrare brutta. 

Sono uscita. Avrei voluto parlarne, farle capire che ho bisogno di sperimentare qualcosa di nuovo: se continuo la danza classica ho paura che inizierò a odiare ogni singolo passo. Io li ho visti i piedi di Anna, gli strumenti espressivi con cui ha calcato la vita: dita deformate, unghie annerite, cicatrici di ferite che ha tenuto nascoste da scarpette di seta. I risvolti negativi delle lunghe ore di allenamento. Non so se voglio pagare questo prezzo. La sua reazione però mi ha bloccata. Come ogni volta, quando tentavo di parlarle dei miei dubbi, non ha voluto ascoltarmi: liquidava sempre le mie richieste e perplessità come sciocchezze. Ha sbattuto la porta. Mi sono incamminata lungo il viale, senza una meta. “Eri perfetta”: ci sono voluti dieci anni perché me lo dicesse. Finora niente era mai abbastanza. A questo punto avrei preferito non lo avesse detto nemmeno oggi.  Mi perderò? Forse. Del resto mi sono già persa in questi anni: mi sono persa un’adolescenza normale. Se ripenso alla mia vita prima di conoscerla non riesco a stabilire in modo assoluto se fosse meglio o peggio. La mia vita prima e dopo di lei è divisa da una linea netta. 

Io, Lapo e Lara eravamo sempre insieme, attaccati come le botteghe dei nostri genitori su Via Bixio.  Ciondolavamo sempre fra l’oratorio, dove il sabato pomeriggio il prete organizzava il cineforum, e i negozi dei nostri genitori, che erano giusto a pochi passi. Io ero la figlia del fornaio, dove i miei amici venivano a fare la merenda, attirati dall’odore della schiacciata fumante del babbo; Lara era la figlia dell’artigiana che realizzava bellissimi paralumi con stoffe e pergamene e nel cui laboratorio ci trovavamo spesso a disegnare, e infine c’era Lapo, il figlio dell’ortolano, che d’estate ci allungava manciate di ciliegie i cui noccioli diventavano munizioni per le nostre cerbottane. 

Questa vita durò fino a che non tornò Anna, la zia di Lara, figura fino ad allora mitica, ma che non avevo mai incontrato: sapevo che aveva studiato alla scuola di ballo del Teatro alla Scala e che, una volta diplomata, era  partita in tournée in giro per il mondo con una compagnia straniera. Lara ogni tanto ci mostrava delle fotografie e delle cartoline che le spediva la zia: ne eravamo affascinati e incuriositi, era un mondo così diverso dal nostro!

Anna tornò all’improvviso: notammo un gran via vai di operai nella villetta bifamiliare davanti alla scuola, dove viveva Lara. Ci spiegò che sua zia stava ristrutturando il suo appartamento per trasformarlo in una scuola di danza.

  - Ma come? Non si esibisce più nei teatri di tutto il mondo? – le chiesi, stupita.

     - La zia non può più ballare per qualcosa che ha ai piedi, ma non se ne può parlare perché altrimenti si mette a piangere.

Io passavo tutta la ricreazione col naso appiccicato ai vetri della finestra dell’aula, per cercare di vedere questa zia famosa, ma non ci riuscii mai, fino alla nevicata del 17 dicembre 2010, che rese Firenze e il mio piccolo mondo un paesaggio surreale. Caddero trenta centimetri di neve. Tornando da scuola camminammo in mezzo a Via Bixio, guardandoci intorno estasiati: la via di solito così trafficata era diventata improvvisamente una strada bianca, solitaria e soffice. Io, Lapo e Lara facemmo un enorme pupazzo di neve, prendendo in giro i grandi che avevano borbottato “tanto non attacca”, e facemmo a pallate.

Fu quel giorno che la vidi. Entrò in negozio dai miei per comprare del pane. Aveva un cappotto bianco, sagomato, che le evidenziava il punto vita, con vistosi bottoni gioiello e un basco, anch’esso bianco, dal quale spuntavano lunghi capelli castani, raccolti in una coda bassa. Pensai che fosse bellissima. Forse sentendosi osservata distolse gli occhi dalle tante qualità di pane che le stava mostrando la mamma e li posò su di me, che stavo facendo i compiti a un lato del bancone. I suoi occhi grigi mi studiarono per un lungo istante, prima di concentrarsi di nuovo sulla mamma. “Sua figlia ha un fisico da ballerina”, le disse, “perché non la manda da me? Lara inizierà a prendere lezioni: mia sorella ha detto che in laboratorio adesso è troppo freddo per la bambina. Potrebbero venire insieme. Ci pensi”. Pagò e uscì. Feci il viso rosso e riabbassai gli occhi sul quaderno, sentendomi speciale. A quel tempo ero magrissima, portavo l’apparecchio per i denti ed ero l’unica che non piaceva a nessun bambino di classe. A scuola non andavo né bene né male, ero timida e mi vergognavo da morire per i vestiti di seconda mano che mi passava mio cugino e che i miei mi costringevano a indossare. In più il mio cognome, Malfatta, sul quale i miei compagni non mancavano di fare battute, sembrava sottolineare crudelmente le mie mancanze. La signora Anna invece, con le sue parole, aveva dato un nuovo significato al mio corpo: non ero uno stecco, avevo un fisico da ballerina. La medaglia aveva mostrato il suo rovescio più bello.  

La prima volta che entrai nella scuola di danza rimasi a bocca aperta. Anna ci accolse in una sala enorme, con un pavimento in legno color miele: su tutta la parete alla nostra destra c’era un unico grande specchio, sbarre a più altezze per allievi di età diverse e dall’altra parte tre ampie finestre. In angolo un pianoforte verticale. Non era stato difficile avere il permesso di seguire le lezioni di danza. I miei avevano sempre daffare in negozio e poco tempo da dedicarmi. Lapo all’inizio mise il muso: si sentì tradito dalla novità. Ebbe il permesso però di assistere alle nostre lezioni, purché stesse in silenzio e non disturbasse: non gli era passata per la testa l’idea che potesse ballare anche lui. Si sedeva in terra, spalle al muro e ci osservava. Anna un giorno lo chiamò alla sbarra, gli chiese di togliersi scarpe e calzini. Lui obbedì, pieno di vergogna. Lo fece provare. Si vedeva che la danza gli piaceva, ma non osò chiedere ai suoi di segnarlo finché al cineforum non vedemmo Billy Elliot.

Cominciò un periodo intenso: a scuola facevamo il tempo pieno e alle cinque eravamo già da Anna. Due ore di danza. I compiti di scuola dovevo farli in bottega, prima della chiusura, o subito dopo cena, ma ero così stanca che mi addormentavo sui libri. La mamma cercava di aiutarmi, ma dovevo seguirla con libri o quaderni in mano a giro per la casa, mentre preparava la cena, rifaceva i letti, caricava la lavatrice. A volte mi alzavo prima la mattina, per completare i compiti, ma erano sempre fatti in fretta e furia.

Quando arrivavamo da Anna ci cambiavamo in fretta. Dopo il tempo che riteneva necessario per prepararci, se non ci vedeva arrivare, andava al pianoforte e suonava un Mi ripetuto, martellante: era il segnale che ci stavamo mettendo troppo. Lei non alzava mai la voce per riprenderci; manteneva un tono moderato ma risoluto, che accompagnava con lunghi sguardi: tanto bastava a tenerci in pugno. Volavamo come uccellini nella grande sala e cominciavamo la lezione: esercizi di stretching per riscaldarci, poi, schiena diritta e pancia in dentro, passavamo alle cinque posizioni di base (“siate fluidi come l’acqua: a voi ragazze servirà, quando dovrete eseguire queste posizioni en pointe”), poi esercizi alla sbarra (“devi appoggiarti delicatamente alla sbarra, Valeria! Non aggrapparti come un naufrago in mezzo alla tempesta!”): inizio in prima, demi-plié, grand plié in prima, demi plié e conclusione con braccio aperto, grand plié in seconda, grand plié in terza (“Equilibrio ragazzi! Un giorno dovrete eseguire un grand plié senza sbarra!”). Via via aggiungevamo altri esercizi: ports de bras alla sbarra coordinati con le posizioni dei piedi, delle gambe, del busto; sollevamenti e relevés, arabesques (“Flessibili come giunchi! Le linee devono essere perfette! Sorridi Valeria, anche se stai soffrendo… Santo Cielo! Quando avremo qualche risultato da quell’apparecchio per i denti?”). 

Dopo aver cominciato danza iniziai ad andare male a scuola: avevo insegnanti esigenti che ci facevano lavorare sodo. Fu una discesa a precipizio, che non seppi frenare: convocarono i miei genitori. “Il rendimento della bambina è calato. È stanca, demotivata. Cosa sta succedendo?”. A scuola ero sempre in tensione, perché sapevo benissimo di non aver studiato come avrei dovuto. Quando ero a danza cercavo di concentrarmi, ma inevitabilmente il mio sguardo correva ogni tanto all’orologio, chiedendomi quando avrei potuto fare i compiti. Quando entrai più nel vivo della danza, le mie serate cominciarono ad essere occupate anche dalle medicazioni. Divenni esperta a curare i miei piedi da sola: vesciche, ferite e cerotti facevano parte della mia quotidianità. Una volta il babbo mi trovò intenta a disinfettarmi col mercurio cromo. Mi guardò, aggrottando la fronte. “Dove pensi di arrivare?”, mi chiese, scuotendo la testa.

Prese i miei piedi fra le sue mani, li accarezzò, indugiò sui calli, sulle mie unghie gialle, come avesse voluto farle sparire. Quella sera parlammo a lungo, mentre la mamma spalmava la crema all’ossido di zinco sui miei piedi arrossati.

Il giorno dopo non mi mandarono a scuola. La mamma rimase con me, lasciando il babbo a cavarsela da solo in negozio. Avevamo tutti bisogno di una pausa. Il pomeriggio andai a danza. Mi sentivo finalmente riposata e durante la lezione mantenni una concentrazione impeccabile. Gli sguardi di Anna mi riempivano di orgoglio, perché scorgevo sul suo volto sollievo e soddisfazione. Mancavano dieci minuti alla fine della lezione quando mi feci male. Volli riprovare più volte un salto che non mi riusciva bene. All’ennesima volta atterrai malamente con il piede girato verso l’interno. Sentii il dolore che mi arrivava come una stilettata fino al cervello. Furono subito tutti accanto a me, allarmati. “Hai rovinato tutto, Valeria! Avevi ballato così bene oggi …” gemette Anna, quando si rese conto che mi ero fatta male. Ho ancora negli occhi l’immagine della sua mascella contratta. Dopo poco non potei più camminare: il piede cominciò a gonfiare. Mi misi a piangere. Tutti pensarono che fosse per il dolore e la rabbia per ciò che era accaduto. Nessuno si immaginò invece che piangevo di delusione: avrei voluto solo che Anna mi abbracciasse e mi consolasse.

All’ospedale dissero che era una frattura del quinto metatarso: prognosi di sei settimane.  Poi avrei dovuto fare fisioterapia. Ipotizzarono uno stop di circa tre mesi. In quel periodo di riposo forzato riuscii a rimettermi in pari con la scuola. Lapo e Lara sospesero le lezioni di danza per starmi accanto: venivano ogni giorno a casa mia a studiare, portando anche giochi da tavolo e DVD di vecchi film. Fu in quel periodo che i miei si resero conto che avevano bisogno di un aiuto: la mamma non poteva lasciare il babbo sempre solo in negozio per stare con me. Trovarono una ragazza alla pari. “Dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro e per te sarà come avere una sorella maggiore”, sentenziò la mamma. Fu così che dopo poco tempo arrivò Blair, e fu una benedizione: era americana, appena maggiorenne, bionda, gambe lunghe e un po’ in carne, con un sorriso largo e un perenne buonumore. Era anche un po’ pasticciona a dire il vero, ma le perdonavi tutto per i sorrisi con cui si scusava: accettava i suoi errori senza drammatizzarli. Fu entusiasta del fatto che danzassi, perché anche lei aveva fatto dei corsi, ma di danza jazz. “Anche se poi ho smesso, come vedi”, disse accennando alla pancetta. 

Una volta guarita ripresi con gradualità le lezioni di danza, mentre i miei amici preferirono dedicarsi ad altro. “Tanto la zia ha detto che sei solo tu quella col talento” mi disse Lara un giorno.

Anna mi inserì in una nuova classe dove non conoscevo nessuna allieva: più Anna era esigente nei miei confronti, più le mie compagne di corso mi invidiavano. “Non ho alcun dubbio di poterti insegnare, ma tu hai la determinazione per imparare? Devi esercitarti ogni giorno, desiderare la perfezione” mi ripeteva ogni volta, osservandomi con sguardo critico e dominando a stento la collera quando le sembrava che non mi impegnassi abbastanza. Lei mi soggiogava, era come una marea: avevo bisogno della sua approvazione, perché solo così riuscivo a vincere la mia insicurezza, ma accontentarla era sfinente.

Una sera Blair venne a prendermi a danza e notò la mia faccia lunga. “Se la danza ti fa questo effetto, forse è meglio smettere” osservò, stringendosi nelle spalle. Tornammo a casa e Blair mise la musica. “Balliamo come piace a me? Senza tutte quelle regole difficili?”, chiese, facendo una faccia buffissima. Improvvisammo una danza libera e istintiva e finimmo per rompere la lampada della scrivania, tanto ci eravamo lasciate andare. Ridevamo come matte quando tornarono i miei.

Poco tempo dopo Blair mi accompagnò a “Danza in fiera”: assistemmo a qualche esibizione e partecipai, senza dirlo ad Anna, a uno stage di danza moderna con un importante insegnante e direttore di una scuola americana, Nath Taylor, che proponeva una tecnica innovativa di ballo.

                                                   

                                                    Continua 


Testo di Daniela Darone

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels.com

lunedì 15 aprile 2024

La suggestione di un volo

 


Valeria cammina lungo l’argine del torrente. È una calda giornata d’aprile, sembra estate, e il riverbero del sole sul corso d’acqua che scorre fra le pietre le fa lacrimare gli occhi. Nota i pesci che nuotano nel torrente, le papere che solcano l’acqua come vascelli. È uno di quei giorni in cui Valeria non pensa a nulla in particolare, si gode solo il nuovo parco fluviale che il lavoro di un gruppo di volontari ha restituito alla città: ripulire l’argine dai rovi non deve essere stato facile, ma adesso il più è fatto e la sfida è solo non sciupare tutto con l’incuria o l’abbandono.

Si volta a controllare quanta strada ha percorso, quanto siano lontani Lara e Lapo, che sono rimasti a giocare a pallavolo. È soltanto quando riprende il cammino che lo vede. All’inizio è solo un puntino nel cielo, ma si avvicina rapido. Valeria lo segue con lo sguardo, rapita da quel volo maestoso, da quei profondi e potenti battiti delle ampie ali, le lunghe zampe distese e il collo flessuoso, il becco giallo come una bandiera. È un airone cenerino, ma lei ancora non lo sa: per il momento vede solo un uccello. Imparerà col tempo a riconoscere un airone, quando le sembrerà importante dare un nome preciso a tutto ciò che esiste nel mondo, emozioni comprese. Le viene in mente, come un’illuminazione e con sorpresa, che quel momento, per qualche ragione, debba essere importante. La vista dell’airone le fa provare una strana suggestione: le sembra che le stia infondendo uno strano senso di libertà, la invita a liberarsi di una scorza di insicurezza, a distaccarsi da qualcosa. Segue l’airone cenerino con lo sguardo fino a che l’uccello non scompare di là dal torrente, fra gli alberi. Si gira di nuovo verso i suoi amici, ancora pervasa da quella sensazione: loro non si sono accorti di niente.

 

Può, la vista di un airone in volo, cambiare il corso di una vita? Chiamatelo “effetto farfalla”, se volete. “Glissade”, che pubblicherò domani su questo blog, è il racconto di ciò che successe dopo che Valeria vide l’airone. “Voi lo sapete cos’è la felicità”, che trovate già sul blog, è invece il racconto di quella Valeria che rimase a giocare a pallavolo con i suoi amici, non passeggiò lungo l’argine del torrente, non alzò lo sguardo al cielo.

E voi, quale preferite dei due? Vi aspetto domani sul blog!


venerdì 8 marzo 2024

"Voi lo sapete cos’è la felicità?", di Daniela Darone (seconda e ultima puntata)


La prima volta che entrai nella scuola di danza rimasi a bocca aperta. Anna ci accolse in una sala enorme, con un pavimento in legno color miele: su tutta la parete alla nostra destra c’era un unico grande specchio, sbarre a più altezze per allievi di età diverse e dall’altra parte tre ampie finestre. In angolo un pianoforte verticale. 

Non era stato difficile avere il permesso di seguire le lezioni di danza. I miei avevano sempre daffare in negozio e poco tempo da dedicarmi. Lapo all’inizio mise il muso: si sentì tradito dalla novità. Ebbe il permesso però di assistere alle nostre lezioni, purché stesse in silenzio e non disturbasse: non gli era passata per la testa l’idea che potesse ballare anche lui. Si sedeva in terra, spalle al muro e ci osservava. Anna un giorno lo chiamò alla sbarra, gli chiese di togliersi scarpe e calzini. Lui obbedì, pieno di vergogna. Lo fece provare. Si vedeva che la danza gli piaceva, ma non osò chiedere ai suoi di segnarlo finché al cineforum non vedemmo Billy Elliot.

Cominciò un periodo intenso: a scuola facevamo il tempo pieno e alle cinque eravamo già da Anna. Due ore di danza. I compiti di scuola dovevo farli in bottega, prima della chiusura, o subito dopo cena, ma ero così stanca che mi addormentavo sui libri. La mamma cercava di aiutarmi, ma dovevo seguirla con libri o quaderni in mano a giro per la casa, mentre preparava la cena, rifaceva i letti, caricava la lavatrice. A volte mi alzavo prima la mattina, per completare i compiti, ma erano sempre fatti in fretta e furia. 

Quando arrivavamo da Anna ci cambiavamo velocemente. Dopo il tempo che riteneva necessario per prepararci, se non ci vedeva arrivare, andava al pianoforte e suonava un Mi ripetuto, martellante: era il segnale che ci stavamo mettendo troppo. Lei non alzava mai la voce per riprenderci; manteneva un tono moderato ma risoluto, che accompagnava con lunghi sguardi: tanto bastava a tenerci in pugno. Volavamo come uccellini nella grande sala e cominciavamo la lezione: esercizi di stretching per riscaldarci, poi, schiena diritta e pancia in dentro, passavamo alle cinque posizioni di base (“fluidità bambini, siate fluidi come l’acqua: a voi ragazze servirà, quando dovrete eseguire queste posizioni en pointe”), poi esercizi alla sbarra (“devi appoggiarti delicatamente alla sbarra, Valeria! Non aggrapparti come un naufrago in mezzo alla tempesta!”): inizio in prima, demi-plié, grand plié in prima, demi plié e conclusione con braccio aperto, grand plié in seconda, grand plié in terza (“Equilibrio ragazzi! Un giorno dovrete eseguire un grand plié senza sbarra!”). Via via aggiungevamo altri esercizi: ports de bras alla sbarra coordinati con le posizioni dei piedi, delle gambe, del busto; sollevamenti e relevés, arabesques (“Flessibili come giunchi! Le linee devono essere perfette! Sorridi Valeria, anche se stai soffrendo… Santo Cielo! Quando avremo qualche risultato da quell’apparecchio per i denti?”). 

 

La testa di Lara sbuca dalla camera di sua zia e mi riscuote. Mi viene incontro. Ha la matita sbavata che le fa sembrare gli occhi due pozzi scuri.

 

-       Il dottore ha detto che è stato un arresto cardiaco. Ci fosse stato qualcuno qui con lei, chissà … La mamma è stravolta. L’ha trovata lei. Pensare che eravamo qui al piano di sotto e non ci siamo accorti di nulla – mi dice col volto deformato da un dolore che non le ho mai visto.

-       E tu, come stai?

-      Mi concentro sulle cose pratiche: ho contattato il medico per l’accertamento della morte, mi sto accordando con il babbo per organizzare il funerale. Allestiremo qui la camera ardente per la veglia … Forse non dovevi venire – mi sussurra poi dolcemente, facendomi una carezza sul pancione. La bambina fa una capriola.   

 

Entriamo in camera di Anna e lei è lì, sul letto: sembra che dorma. Il viso non è contorto, come temevo. Sembra quasi che abbia le labbra atteggiate a un sorriso ironico. Percorro con lo sguardo la sua figura, che mantiene anche in questa situazione assurda una strana compostezza. Arrivo ai suoi piedi, gli strumenti espressivi con cui ha calcato la vita: dita deformate, unghie annerite, cicatrici di ferite che ha tenuto nascoste da scarpette di seta. I risvolti negativi delle lunghe ore di allenamento. Adesso che è inerme, muta, che non può più posare il suo sguardo severo su di me, adesso la vedo. Adesso sento il suo affanno. “Non ho alcun dubbio di poterti insegnare, ma tu hai la determinazione per imparare? Devi esercitarti ogni giorno, desiderare la perfezione” mi ripeteva ogni volta, osservandomi con sguardo critico. “Non hai ancora imparato a farti uno chignon decente! Il collo e il viso devono essere scoperti.” E ancora, se non riuscivo, dopo aver provato più volte, mi diceva, asciutta, “Non puoi o non vuoi? Nella danza non puoi barare, Valeria!”. 

Come avevo potuto darle tanto potere? Lei mi soggiogava, era come una marea. Eppure adesso, guardandola, sento solo pietà e affetto. C’è qualcosa di osceno in un corpo senza vita esposto alla vista dei vivi, ci sono intimità e pudore violati. Se penso che degli estranei verranno qui, la toccheranno, la sistemeranno per l’ultimo saluto, provo uno strano dolore: lei non avrebbe voluto.  Piano, senza farmi vedere, col lenzuolo le copro i piedi deformi. Ho bisogno di sedermi. Quei dolorini di stamani si fanno sentire di nuovo.

 

-       Ti dispiace se mi sdraio un attimo sul divano? – chiedo a Lara, che mi cinge le spalle con affetto.

-    Io credo che dovresti andare a casa, Valeria. Ti accompagna Lapo in macchina. 

-     Solo un attimo … è questa pancia che diventa dura ogni tanto e mi fa impressione ... ma è normale, stai tranquilla.

 

Probabilmente i miei amici hanno ragione. Stare qui non mi fa bene, eppure non sono pronta ad andare via. Mi sdraio e chiudo gli occhi. Risento la musica, la sua voce, rivedo i miei movimenti …

Dopo aver iniziato le lezioni di danza cominciai ad andare male a scuola: avevo insegnanti esigenti che ci facevano lavorare sodo. Fu una discesa a precipizio, che non seppi frenare: convocarono i miei genitori. “Il rendimento della bambina è calato. In più appare stanca, demotivata. Cosa sta succedendo?”. A scuola ero sempre in tensione, perché sapevo benissimo di non aver studiato come avrei dovuto. Quando ero a danza cercavo di concentrarmi, ma inevitabilmente il mio sguardo correva ogni tanto all’orologio, chiedendomi come avrei potuto fare i compiti. 

Quando entrai più nel vivo della danza, le mie serate cominciarono ad essere occupate anche dalle medicazioni. Divenni esperta a curare i miei piedi da sola: vesciche, ferite e cerotti facevano parte della mia quotidianità. Una volta il babbo mi trovò intenta a disinfettarmi col mercurio cromo. Mi guardò, aggrottando la fronte. “Dove pensi di arrivare?”, mi chiese, scuotendo la testa. 

Prese i miei piedi fra le sue mani, li accarezzò, indugiò sui calli, sulle mie unghie gialle, come avesse voluto farle sparire. Quella sera parlammo a lungo, mentre la mamma mi spalmava la crema all’ossido di zinco. 

Il giorno dopo non mi mandarono a scuola. La mamma rimase con me, lasciando il babbo a cavarsela da solo in negozio. Avevamo tutti bisogno di una pausa.

Il pomeriggio andai a danza. Mi sentivo finalmente riposata e durante la lezione mantenni una concentrazione impeccabile. Gli sguardi di Anna mi riempivano di orgoglio, perché scorgevo sul suo volto sollievo e soddisfazione. Mancavano dieci minuti alla fine della lezione quando mi feci male. Volli riprovare più volte un salto che non mi riusciva bene. All’ennesima volta atterrai malamente con il piede girato verso l’interno. Sentii il dolore che mi arrivava come una stilettata fino al cervello. Anna, Lara e Lapo furono subito accanto a me, allarmati. 

“Hai rovinato tutto, Valeria. Avevi ballato così bene oggi …” gemette Anna, quando si rese conto che mi ero fatta male. Ho ancora negli occhi l’immagine della sua mascella contratta. Dopo poco non potei più camminare: il piede cominciò a gonfiare.

All’ospedale dissero che era una frattura del quinto metatarso: prognosi di sei settimane.  Poi avrei dovuto fare fisioterapia. Ipotizzarono uno stop di circa tre mesi. Fu definitivo. In quei mesi di riposo forzato riuscii finalmente a rilassarmi e a riprendere a studiare con più calma, cercando di colmare le lacune che avevo accumulato. Lapo e Lara sospesero le lezioni di danza e mi stettero accanto: venivano ogni giorno a casa mia a studiare, portando anche giochi da tavolo e DVD di vecchi film. Mi regalarono perfino il Morandini, in modo potessi documentarmi sui film visti e da vedere. La mamma preparava enormi ciotole di pop corn, fette di pane e Nutella, latte e biscotti. Passavamo anche molto tempo a chiacchierare. 

Lapo in quel periodo era strano, a volte si rabbuiava. Un giorno ci confessò con gli occhi bassi che aveva mille pensieri: si era reso conto di quanto bene volesse a un suo compagno di classe. Passò momenti difficili. A scuola cominciarono a fare battute. Un giorno, a ricreazione, due ragazzini ripresero le frecciatine. Io e Lara facemmo a botte con loro per difendere Lapo. Fummo tutti sospesi, ma da quel giorno smisero di tormentarlo.   

Nessuno di noi tornò a frequentare le lezioni di danza. “Tanto io e Lapo siamo solo stati delle comparse. Era te che voleva, non l’avevi capito?” mi disse Lara.

 

Una brava insegnante, fra le lezioni di grammatica e di letteratura, riuscì a compiere il piccolo miracolo a cui ogni bravo professore dovrebbe aspirare: oltre la conoscenza, la formazione di una coscienza. Realizzai che tutti i sacrifici che avevo fatto erano volti a guadagnare l’approvazione di Anna, per guarire dalla mia insicurezza, ma che non amavo la danza quanto lei e non ero disposta a dedicare la vita a quest’arte. A volte il talento naturale non corrisponde ai nostri interessi più profondi. E poi arrivò la vita, con la sua ingovernabilità: la scuola, gli amici, una bellezza che fioriva a poco a poco, le uscite, i ragazzi, l’università. Ogni giorno andavo qualche ora a aiutare i miei: mi portavo dietro i libri e studiavo fra un cliente e l’altro. Il babbo faceva le parole crociate nei tempi morti, diceva che gli serviva per tenere la mente allenata. Ci facevamo compagnia. A volte entrava Anna a comprare qualcosa. Scambiavamo qualche frase di circostanza in un mare di imbarazzo. Sentivo che avrebbe voluto dire di più, ma non succedeva mai. E poi, e poi il fattaccio. Due linee sullo stick. Mi riversai come un uragano da Lapo, alla bottega del suo babbo. Non dissi nulla: tirai solo fuori dalla tasca del giubbotto il test di gravidanza e glielo mostrai.   

-       Oh mamma, tesoro, come in una brutta telenovela? E ora che facciamo? – mi chiese, turbato.

Lo abbracciai, sentendo il cuore che mi batteva con sordi tonfi e mi squassava il petto, grata per avergli sentito quella partecipazione e quell’affetto semplicemente in quel verbo coniugato al plurale. Rimasi muta, a guardarlo con gli occhi sgranati.

-       E Alberto? Che ha detto?

-     È partito per il master dieci giorni fa … e considerato che a Boston adesso sono le tre di notte, forse è meglio se aspetto a chiamarlo, che dici?

-       Cazzarola, Valeria, che casino!

 

Quando telefonai ad Alberto per dirgli che aspettavamo un figlio rimase muto per un tempo interminabile. Poi il fiume ruppe gli argini, cominciò a parlare e disse troppo. Alla fine mi prospettò la soluzione più semplice per lui e la più difficile per me. Raccontai a Lapo e a Lara di quanto mi avessero ferita le parole di Alberto, di quanto si fosse accorato a spiegarmi che era tanto, tanto confuso, e che questo incidente non ci voleva, proprio ora che aveva realizzato il suo sogno di questo master a Boston.

-       Oh, poverino … - commentò Lapo, sarcastico – Pensa solo ai suoi progetti … E i tuoi sogni, invece? Forse dovresti fargli sapere che un cuoricino ce l’hai anche tu, tesoro.

 

Credo che all’ospedale non abbiano capito nulla, perché la mia bambina nascerà oggi. Lo so, anche se è la mia prima figlia. Chiamo Lara, che accorre subito.


 

-      -              Mi sa che mi si sono rotte le acque, Lara. Adesso mi alzo da questo divano e temo che ti farò una pozza in terra …

 

Lo sguardo di Lara si allarga.

 

-       -       Lapo, vieni subito! Andiamo in ospedale! Valeria partorisce!

 

Siamo in macchina, diretti all’ospedale. Lapo guida, assorto. Lara è dietro, insieme a me e mi tiene la mano. 

 

-       Dovrebbe esserci Alberto in questo momento. Oggi nasce sua figlia e quell’infame dov’è?

-       Lapo, per favore, non è il momento. Lasciala tranquilla.

-       Sono tranquilla ragazzi. Ho avuto nove mesi per tranquillizzarmi. Quanto ad Alberto, staremo a vedere … ha detto che, in qualche modo, lui ci sarà … anche se ancora non sa bene come …

-       Non importa tesoro, perché noi ci saremo sempre invece, e da subito – mi rassicura Lapo, guardandomi dallo specchietto retrovisore. 

-       Mi dispiace che hai dovuto chiudere il negozio per me, Lapo.

-       Figurati! Le zucchine si venderanno anche domani. E poi volevo già chiudere per la morte di Anna, in segno di rispetto. Ma è più bellino scrivere chiuso per lieto evento, no? 

 

Al primo semaforo rosso Lapo si gira verso di me e pianta i suoi occhi dentro i miei.

 

-       Sai che si fa se quel demente di Alberto non si prende le sue responsabilità? Ti aiutiamo noi a crescere la bambina e, se non ti innamori più di nessuno, ci si sposa io e te. Che dici? Ricorda: la bambina cresce, un cattivo marito rimane. Se non ti vuole, che se ne vada al diavolo. Ti prendo io che ti voglio un mondo di bene, anche se non in quel modo lì. 

-       Lapo, magari tu sposerai Michele, prima o poi.

-       Figurati! Quel pusillanime! Ancora non ha detto nulla ai suoi. Mi aveva promesso che me li avrebbe presentati per il suo compleanno e ha ringambato. L’ennesima volta! 

-       Magari gli serve solo un po’ di tempo … forse lui non ha avuto due amiche che hanno fatto a botte per lui!

A Lapo scappa un sorriso.

-       Maremma, Lara, ti ricordi che labbrata gli tirò la Valeria a quell’imbecille? Gli lasciò l’impronta delle sue manine secche su quel faccione! 

Abbiamo tutti un attacco di ridarella a ricordare quei momenti. Eppure a quel tempo facevano male. Con un animo un po’ più leggero arriviamo in ospedale.

 

In sala parto è entrata Lara con me, a farmi forza e a darmi coraggio per resistere a dei dolori sconosciuti. Quando Agata è scivolata fuori da me e me l’hanno appoggiata sulla pancia abbiamo riso e pianto insieme.

Adesso siamo qui in reparto, io e la mia piccina: me la tengo sulla pancia col capino sotto il mio mento. Un figlio può essere solo una scoperta. Penso a questo mentre affondo il naso nell’incavo fra il collo e il viso della mia bambina. Le sento addosso un odore irresistibile di biscotto.

Il babbo, che mi ha raggiunto dopo aver chiuso il negozio, fa le parole crociate, seduto accanto al letto.

 

-        Senti Valeria, due orizzontale: “Così è il vivere privo di rischi”. Sono sei lettere, la terza è una i, la sesta una o.

Ci penso un po’. 

-       Noioso, dico convinta

Aggrotta la fronte e ci rimugina.

-       Dici? Noioso? Mah … Ci starebbe in effetti, gli incroci tornano … - sospira e addrizza le spalle. A volte anche un cruciverba riesce a darci un tocco di ottimismo. Ai miei questa situazione sembra enorme, ma non lo dicono.

– Ora devo andare, Valeria, vado a vedere come sta la mamma. Guarda se la sciatica doveva farsi sentire proprio in questi giorni … faccio una foto alla bambina e vado. Era così dispiaciuta di non poter venire che le veniva da piangere.

-       Dalle un bacio. Vedrai che mi mandano via domani. La vedrà a casa!

Solo quando è uscito mi accorgo che ha lasciato le parole crociate sul tavolino. Agata dorme e la metto nella cullina trasparente accanto al mio letto. Guardo il cruciverba. Mancano poche parole per finirlo, ma continuo a non trovare le risposte giuste ad alcune definizioni. Alla fine decido di barare e di andare a vedere le soluzioni in fondo al giornalino. Ecco perché non riesco a finirlo! Il vivere privo di rischi non è noioso, ma quieto. Mi viene da ridere e scuoto la testa. Non cambierò quello che ha scritto il babbo, mi dico. Torno al cruciverba e inserisco delle lettere a caso negli spazi bianchi, tanto lui non se ne accorgerà. Lo vedrà completato e passerà oltre. Tutti noi passeremo oltre: abbiamo sempre più coraggio di vivere di quel che crediamo.  


Testo di Daniela Darone

Foto di Cottonbro studio, da Pexels

martedì 5 marzo 2024

"Voi lo sapete cos’è la felicità?", di Daniela Darone




- Sei sicura di volerla vedere, Valeria? E se poi rimani turbata e ti partono le doglie? Mica ci vorrai scodellare la bambina qui!

- Macché, Lapo, dai! Sono stata stamani al controllo: avevo dei dolorini e pensavo fossero contrazioni, invece mi hanno visitata e rimandata a casa. Piuttosto, Lara come sta?

- Scossa, ma energica come sempre. Poi, lavorando in ospedale, un po’ ci è abituata.

- Beh, non è proprio la stessa cosa. Qui si parla di sua zia e di tutto quello che abbiamo vissuto con lei …

- Si, lo so. Forse era meglio aver passato meno ore in questa casa, specialmente tu … che c’è? Non guardarmi così! Ora solo perché è morta ne vogliamo fare una santa? – mi bisbiglia, accigliato.

Allungo lo sguardo verso la camera di Anna. Quando era la mia insegnante di ballo la chiamavo signora, ma fra noi l’abbiamo sempre chiamata per nome.

Io, Lapo e Lara eravamo sempre insieme, attaccati come le botteghe dei nostri genitori su Via Bixio. Ciondolavamo sempre fra l’oratorio, dove il sabato pomeriggio il prete organizzava il cineforum, e i negozi dei nostri genitori, che erano giusto a pochi passi. Io ero la figlia del fornaio, dove i miei amici venivano a fare la merenda, attirati dall’odore della schiacciata fumante del babbo; Lara era la figlia dell’artigiana che realizzava bellissimi paralumi con stoffe e pergamene e nel cui laboratorio spesso ci trovavamo a disegnare, e infine c'era Lapo, il figlio dell’ortolano, che d’estate ci allungava manciate di ciliegie i cui noccioli diventavano munizioni per le nostre cerbottane.

Questa vita beata durò fino a che non tornò Anna, la zia di Lara, figura fino ad allora mitica, ma che non avevo mai incontrato: sapevo che aveva studiato alla scuola di ballo del Teatro alla Scala e che, una volta diplomata, era partita in tournée in giro per il mondo con una compagnia straniera. Lara ogni tanto ci mostrava delle fotografie e delle cartoline che le spediva la zia: ne eravamo affascinati e incuriositi, era un mondo così diverso dal nostro!

Anna tornò all’improvviso: notammo un gran via vai di operai nella villetta bifamiliare davanti alla scuola, dove viveva Lara. Ci spiegò che sua zia stava ristrutturando il suo appartamento per trasformarlo in una scuola di danza.

- Ma come? Non si esibisce più nei teatri di tutto il mondo? – le chiesi, stupita.

- La zia non può più ballare per qualcosa che ha ai piedi, ma non se ne può parlare perché altrimenti si mette a piangere.

Io passavo tutta la ricreazione col naso appiccicato ai vetri della finestra dell’aula, per cercare di vedere questa zia famosa, ma non ci riuscii mai, fino alla nevicata del 17 dicembre 2010, che rese Firenze e il mio piccolo mondo un paesaggio surreale. Caddero trenta centimetri di neve. Tornando da scuola camminammo in mezzo a Via Bixio, guardandoci intorno estasiati: la via di solito così trafficata era diventata improvvisamente una strada bianca, solitaria e soffice. Io, Lapo e Lara facemmo un enorme pupazzo di neve, prendendo in giro i grandi che avevano borbottato “tanto non attacca”, e facemmo a pallate. Fu quel giorno che la vidi. Entrò in negozio dai miei per comprare del pane. Aveva un cappotto bianco, sagomato, che le evidenziava il punto vita, con vistosi bottoni gioiello e un basco, anch’esso bianco, dal quale spuntavano lunghi capelli castani, raccolti in una coda bassa. Pensai che fosse bellissima. Forse sentendosi osservata distolse gli occhi dalle tante qualità di pane che le stava mostrando la mamma e li posò su di me, che stavo facendo i compiti a un lato del bancone. I suoi occhi grigi mi studiarono per un lungo istante, prima di concentrarsi di nuovo sulla mamma.

“Sua figlia ha un fisico da ballerina”, le disse, “perché non la manda da me? Anche Lara inizierà a prendere lezioni: mia sorella ha detto che in laboratorio adesso è troppo freddo per la bambina. Potrebbero venire insieme. Ci pensi”. Pagò e uscì. Feci il viso rosso e riabbassai gli occhi sul quaderno, sentendomi speciale.

A quel tempo ero magra magra, portavo l’apparecchio per i denti ed ero l’unica che non piaceva a nessun bambino di classe. A scuola non andavo né bene né male, ero timida e mi vergognavo da morire per i vestiti di seconda mano che mi passava mio cugino e che i miei mi costringevano a indossare. In più il mio cognome, Malfatta, sul quale i miei compagni non mancavano di fare battute, sembrava sottolineare crudelmente le mie mancanze. La signora Anna invece, con le sue parole, aveva dato un nuovo significato al mio corpo: non ero uno stecco, avevo un fisico da ballerina. La medaglia aveva mostrato il suo rovescio più bello.


continua ...


Testo di Daniela Darone - Foto di Norma Mortenson da Pexels

venerdì 16 febbraio 2024

"Quei giorni ai giardini delle Tuileries", di Daniela Darone

Foto di  Céline da pexels.com


Mia madre era convinta che nella vita si dovesse aspirare all’eccellenza. Lei ne era la prova vivente: giornalista e scrittrice, fra i tanti impegni aveva trovato anche il tempo di sposarsi e avere una figlia. Solo che la famiglia che si era creata non le bastava per essere felice e, dopo qualche anno, aveva lasciato mio padre per un uomo con molti anni in più di lei, ma di successo. Da quel momento ero diventata la bambina con la valigia. 
Io e la mamma ci eravamo trasferite a Parigi, a casa di Adrien, il suo nuovo compagno. Tanto ero stanziale nei periodi che passavo con mio padre in Italia, che si sentiva in dovere di darmi stabilità, tanto mi sentivo una girovaga durante i periodi passati con mia madre. Lei era vulcanica e instancabile: anche quando tornava a casa, dopo un viaggio di lavoro, scarmigliata, con il viso stanco e deperito, conservava sempre gli occhi accesi dalla passione bruciante per ciò che faceva. 
Quando lavorava a casa e tentavo di raggiungerla nel suo studio, magari tenendo in mano un quaderno con un esercizio difficile, interveniva la cameriera: maman non poteva essere disturbata. Per stare con la mamma avevo capito che dovevo attendere pazientemente il mio turno. 
Cominciai così a chiudermi sempre più nel mio mondo di fantasia, per colmare l’assenza emotiva e fisica di mia madre, e a passare interminabili ore davanti alla televisione. Con la televisione era tutto immediato, non dovevo sforzarmi: le immagini scorrevano e io dovevo solo stare lì davanti a farmi inondare. 
Ogni tanto la mamma apriva rumorosamente la porta dello studio, si precipitava in camera mia, come fosse una bambina, e con impeto esclamava: “Adele! Andiamo a fare una passeggiata ai giardini delle Tuileries a caccia di qualche personaggio?”. Era il nostro gioco preferito. Mi faceva indossare un bel vestitino e delle scarpette eleganti, poi mi pettinava i miei lunghi capelli scuri e me li acconciava con una treccia alla francese: adoravo il tocco delle sue mani sui miei capelli. Uscivamo di casa per mano e andavamo a passeggiare ai giardini delle Tuileries, e in quei pomeriggi la mamma era completamente mia: testa, cuore e anima li dedicava a me. 
“Faremo il nostro ingresso trionfale da Place de la Concord”, mi sussurrava la mamma, facendomi l’occhiolino. Il nostro “gioco” consisteva nel passeggiare nel parco e guardarci intorno, per scovare personaggi curiosi, atteggiamenti particolari, situazioni stravaganti che potevano verificarsi fra le varie persone che affollavano il giardino. Fantasticavamo su chi potesse essere la buffa signora col cagnolino, la ragazza che ondeggiava sui tacchi, il giovane con un mazzo di fiori in mano. Spesso collocavamo questi personaggi in un tempo futuro o ci divertivamo a immaginarli come se fossero vissuti in epoche antiche. Mi piaceva tutto di quei pomeriggi: il suono dei nostri passi sul ghiaino, osservare le nuvole gonfie nel cielo, vedere i bei palazzi alteri e la tour Eiffel sullo sfondo, i piccioni sulle teste delle statue maestose, le persone che si rilassavano intorno ai laghetti, gli arabeschi disegnati dalle ombre dei cancelli. A volte portavamo una barchetta da far galleggiare sul laghetto, o ci fermavamo al teatrino dei burattini, divertendoci un mondo ad assistere allo spettacolo, o la mamma mi pagava un giretto sugli asinelli. Ci attardavamo fino a sera inoltrata, nella bella luce del tramonto, e facevamo ritorno a casa tardi, dopo aver cenato insieme, io e lei soltanto: poteva essere un semplice panino acquistato ad un chiosco, qualche crepes in un ristorantino bretone, o un ristorante di classe, in certi giorni speciali. La scelta restava affidata a ciò di cui avevamo voglia sul momento. Solo che poi la giornata finiva e già sapevo che i giorni a seguire mi avrebbero riportata al solito tran tran solitario.
Una sera mia madre mi aveva trascinato a una cena, dove ci sarebbe stato anche un politico che voleva conoscere. Immaginavo che sarei stata l’unica bambina in quella casa, ma l’alternativa era restare con la babysitter, così ci andai. 
La casa era lussuosa: le stanze erano enormi e illuminate da originali lampadari. Me ne stavo nascosta dietro mia madre e Adrien. Lei quella sera indossava un vestito lungo e attillato che le fasciava troppo la pancia. All’inizio la padrona di casa non si era accorta di me ma, quando mi vide, mi regalò un sorriso compiaciuto. Disse che ero deliziosa. Mia madre, temendo non avessi capito, tradusse le parole, irritandomi. 
La signora Carla era italiana, si era trasferita a Parigi tanti anni addietro per seguire il marito, che era stato nominato direttore di una banca. Da quel momento mi parlò sempre in italiano, per mettermi a mio agio. Disse che era felice di poter parlare con qualcuno nella sua lingua madre. Non rivelai a nessuno che in realtà capivo benissimo il francese e che avrei potuto sostenere una conversazione in quella lingua. Non vivevo forse anch’io a Parigi da qualche anno? È vero che frequentavo una scuola italiana, ma tante attività si svolgevano in francese e le lunghe ore passate davanti alla televisione avevano contribuito a farmi imparare bene la lingua! Non avevo voti brillanti a scuola, forse era per quello che gli altri pensavano sempre di dovermi facilitare, ma non ero per niente stupida. Semplicemente non ero attratta dai libri e dallo studio. Mi distraevo spesso: era facile lasciarsi catturare dalla luce del sole fuori dalla finestra dell’aula, dal cinguettio di un uccello, da una mosca che ronzava, da una matita che cadeva. Ero una bambina che si sentiva sola, e sicuramente all’inizio le difficoltà con la lingua avevano accentuato il mio isolamento, dovuto già a un carattere timido e riservato. Avevo un’unica amica, Camille, che condivideva con me la passione per i cartoni animati. 
Durante la cena sedevo, invisibile, fra mia madre e Adrien: lei era occupata a parlare con il politico, mentre Adrien conversava sugli ultimi film di successo con un altro commensale. Così, per distrarmi, mi misi a osservare le persone attorno a quel grande tavolo. I miei occhi vagavano da un ospite all’altro, cercando di determinarne il carattere, attribuendo loro lavori improbabili, vestendoli da romani o da uomini del paleolitico con la mia fantasia. Potevo osservarli con calma, senza sembrare sfacciata, e ridacchiare divertita quando li mettevo in ridicolo perché, ogni volta che mi concentravo su un volto, non incrociavo mai lo sguardo di nessuno. Quando però sbirciai la padrona di casa, incontrai i suoi occhi gentili che danzavano curiosi sul mio viso. Mi sorrise e mi sussurrò che fra poco avrebbero servito il dolce e che presto avrei potuto alzarmi. Prima che le cameriere portassero il caffè, Carla si avvicinò alla mia sedia e mi porse la mano. “Ti va di vedere un film?”, mi domandò. Accettai. Mentre la seguivo, colsi uno stralcio di conversazione fra una signora e mia madre. “Sei splendida cara, quasi non si direbbe che fra qualche mese avrai un bambino!”. Rimasi turbata, ma non lo diedi a vedere. In fondo, col cuore, sapevo già che la mamma non era ingrassata: dentro di lei stava crescendo un bambino, qualcuno che era ancora così piccolo, ma che riusciva già a farmi sentire di troppo. Se anche mio padre si fosse risposato e avesse avuto un figlio, di chi sarei stata? Sarei diventata un’appendice scomoda sia per una coppia che per l’altra. E comunque non mi andava di dividere la mamma con un altro bambino. 
Io e Carla entrammo in un salottino. Lei fece partire la videocassetta e le immagini presero a scorrere sullo schermo: sembrava un film carino, con un simpatico orsetto. Io però ero ancora turbata e i miei occhi vagavano inquieti nella stanza, incapaci di concentrarsi sulla televisione. Carla forse se ne accorse, perché si avvicinò alla libreria e ne estrasse un libro per bambini, con gli angoli arrotondati. Me lo porse. Rimasi a guardarla, un po’ incerta. 
“So che è solo un libro”, mi disse sorridendo, “e magari non ti piace nemmeno leggere, però è una storia bellissima. Te lo regalo. Io l’ho letto così tante volte che lo so a memoria e sono sicura che lui si è davvero annoiato a stare in questa libreria a prendere polvere e che vorrebbe raccontare la sua storia anche a te”.
Mi feci sfuggire una risatina e la tensione di poco prima si stemperò. Presi il libro che mi porgeva, mormorandole un grazie. Il volume aveva una copertina cartonata, piacevole al tatto. L’illustrazione, in rilievo e a vivaci colori, rappresentava una bambina con un buffo cappello, che correva dietro a un cagnolino. Desiderai di essere io quella bambina. “Preferirei rimanere qui con te, a farti compagnia, ma devo tornare dai miei ospiti”, mi disse Carla, stringendosi nelle spalle. “Tu mettiti comoda e vieni a chiamarmi, se hai bisogno di qualcosa”, concluse, chiudendo la porta con un sorriso. 
Non appena fui sola ripresi a guardare la televisione, tenendo il libro in grembo. Senza accorgermene avevo iniziato a passare la mano sulla copertina in modo quasi ritmico, sembrava la accarezzassi, seguendo i contorni delle figure. Non so come, invece di continuare a guardare la televisione, mi misi a sfogliare il libro, ammirando le illustrazioni una a una. Poi tornai alla prima pagina e iniziai a leggere. 
Fu così che mi trovò mia madre qualche ora dopo: immersa nella lettura. Ero nello stesso identico posto, dove mi ero seduta per guardare il film, ma in qualche modo non ero più lì. Avevo seguito quella simpatica bambina nel suo mondo: avevo corso con lei dietro al cucciolo, ci eravamo sedute sotto un albero frondoso a fare un picnic prelibato, ci eravamo sporte lungo i bordi di uno stagno a vedere i girini per poi passeggiare in uno sterminato campo di papaveri: come erano sporche adesso le nostre scarpette eleganti! Ma non c’era tempo di occuparsi di simili sciocchezze, adesso che eravamo giunte a una grotta oscura che volevamo esplorare ... 
La voce della mamma ruppe l’incantesimo. 
“Pensavo di trovarti addormentata”, mi disse, spostando gli occhi dal mio viso al libro che tenevo sulle ginocchia. Aveva l’espressione sorpresa. 
“Alla bambina deve piacere moltissimo leggere”, disse Carla, sorridendo. 
“Veramente no, non l’ho mai vista con un libro in mano, se non sotto tortura”. 
“Veramente sì, mamma. Mi piace leggere! Sono quasi a metà romanzo!”, risposi, sentendomi ferita. 
“Allora torna presto a trovarmi, Adele! Così possiamo commentare il libro insieme quando lo avrai finito e mi dirai se ti è piaciuto!”, esclamò Carla. 
“Volentieri signora. Grazie per questo dono così bello”, le risposi compita, in francese. Mi alzai e mi rassettai la gonna, e stringendo il volume fra le mani mi avviai verso l’uscita. 
“Una mente brillante, la tua Adele. Ho idea che ti stupirà … Chissà se l’allieva supererà la maestra …” sussurrò Carla alla mamma. 
“E’ sempre auspicabile che sia così”, rispose lei in un soffio. 
Cominciò così il mio amore per i libri e una nuova intesa fra me e la mamma. Carla aveva fatto due piccole magie. Era riuscita a “vedermi” per come ero veramente. Alcuni adulti hanno il dono di comprendere i bambini e di entrare in sintonia con loro, naturalmente: Carla era uno di questi esseri speciali. Sono grata alla buona sorte di averla incontrata e aver potuto continuare a frequentarla anche in seguito. La seconda magia di Carla fu di avermi regalato un libro che, per la prima volta, mi aveva fatto sentire quell’oggetto come desiderabile. Non era solo una storia avvincente, era un oggetto realizzato con cura e con una carta di pregio. Era qualcosa di desiderabile anche esteticamente. 

Foto di Olia Danilevich da Pexels
Cominciai a leggere, moltissimo. Una volta spenta la televisione, fui ammessa nello studio della mamma. Mentre lei scriveva, io stavo sdraiata sul piccolo divano e divoravo libri su libri. Scoprii che leggere metteva in moto parti stimolanti della mia mente: l’immaginazione doveva compensare la mancanza di alcune informazioni, potevo dare un volto ai personaggi, immaginare possibili scenari futuri alla fine delle storie, fare deduzioni, provare un ventaglio infinito di emozioni. Era un atto molto più creativo di quello di starsene davanti a uno schermo. Ogni tanto i miei occhi si alzavano sulla mamma e la sorprendevo a guardarmi, sorridente, ogni tanto invece la scorgevo con la fronte aggrottata a pestare sui tasti del computer, quasi con furia. A volte partiva e, se era possibile, prima di partire mi portava in Italia da mio padre. Però mi scriveva e mi telefonava ogni giorno. Sembrava che improvvisamente avessimo molte più cose di cui parlare. Credo che prima della mia “trasformazione” la mamma cercasse una complicità intellettuale con me, che non riusciva a raggiungere. Forse era semplicemente delusa dal fatto che sembravo non essere minimamente interessata a tutto ciò che lei amava di più. 
Oggi che ho qualche capello bianco riesco a vedere le cose con maggior chiarezza. Quello che il mondo, e i figli, chiedono a una donna, è di incarnare un essere perfetto: diventare madri richiede, istantaneamente, di mutare pelle. Una donna non è mai nel posto giusto. Se è al lavoro, qualcuno osserverà che dovrebbe essere con i figli. Se è con i figli, la rimprovereremo di non essere al lavoro. Se ingrassa, non dovrebbe lasciarsi andare così! Se va in palestra, non farebbe forse meglio a occuparsi di cosa succede in casa? Trovare un equilibrio è difficile. Mia madre mi ha insegnato a cercare, nella vita, una passione. Mi ha insegnato che una donna non è solo una madre, non solo una moglie, ma una persona con delle aspettative e dei desideri. Certo, da piccola mi sarebbe piaciuto stare più tempo con la mamma, ma lei non sarebbe stata felice. E chissà, forse neanche io lo sarei stata, accanto ad una mamma che mortificava le sue aspirazioni. Sarebbe stato preferibile che non diventasse madre? Che non si legasse a nessuno? Forse, ma non penso che a un uomo che voglia realizzarsi nel lavoro chiederemmo mai un sacrificio simile. Credo che quel proverbio africano, che recita che per crescere un bambino occorra un intero villaggio, sia profondamente vero. 
Da parte mia, ricordo quei giorni ai giardini delle Tuileries come i più belli della mia infanzia.

Foto di Dwain Norsa da unsplash