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venerdì 8 marzo 2024

"Voi lo sapete cos’è la felicità?", di Daniela Darone (seconda e ultima puntata)


La prima volta che entrai nella scuola di danza rimasi a bocca aperta. Anna ci accolse in una sala enorme, con un pavimento in legno color miele: su tutta la parete alla nostra destra c’era un unico grande specchio, sbarre a più altezze per allievi di età diverse e dall’altra parte tre ampie finestre. In angolo un pianoforte verticale. 

Non era stato difficile avere il permesso di seguire le lezioni di danza. I miei avevano sempre daffare in negozio e poco tempo da dedicarmi. Lapo all’inizio mise il muso: si sentì tradito dalla novità. Ebbe il permesso però di assistere alle nostre lezioni, purché stesse in silenzio e non disturbasse: non gli era passata per la testa l’idea che potesse ballare anche lui. Si sedeva in terra, spalle al muro e ci osservava. Anna un giorno lo chiamò alla sbarra, gli chiese di togliersi scarpe e calzini. Lui obbedì, pieno di vergogna. Lo fece provare. Si vedeva che la danza gli piaceva, ma non osò chiedere ai suoi di segnarlo finché al cineforum non vedemmo Billy Elliot.

Cominciò un periodo intenso: a scuola facevamo il tempo pieno e alle cinque eravamo già da Anna. Due ore di danza. I compiti di scuola dovevo farli in bottega, prima della chiusura, o subito dopo cena, ma ero così stanca che mi addormentavo sui libri. La mamma cercava di aiutarmi, ma dovevo seguirla con libri o quaderni in mano a giro per la casa, mentre preparava la cena, rifaceva i letti, caricava la lavatrice. A volte mi alzavo prima la mattina, per completare i compiti, ma erano sempre fatti in fretta e furia. 

Quando arrivavamo da Anna ci cambiavamo velocemente. Dopo il tempo che riteneva necessario per prepararci, se non ci vedeva arrivare, andava al pianoforte e suonava un Mi ripetuto, martellante: era il segnale che ci stavamo mettendo troppo. Lei non alzava mai la voce per riprenderci; manteneva un tono moderato ma risoluto, che accompagnava con lunghi sguardi: tanto bastava a tenerci in pugno. Volavamo come uccellini nella grande sala e cominciavamo la lezione: esercizi di stretching per riscaldarci, poi, schiena diritta e pancia in dentro, passavamo alle cinque posizioni di base (“fluidità bambini, siate fluidi come l’acqua: a voi ragazze servirà, quando dovrete eseguire queste posizioni en pointe”), poi esercizi alla sbarra (“devi appoggiarti delicatamente alla sbarra, Valeria! Non aggrapparti come un naufrago in mezzo alla tempesta!”): inizio in prima, demi-plié, grand plié in prima, demi plié e conclusione con braccio aperto, grand plié in seconda, grand plié in terza (“Equilibrio ragazzi! Un giorno dovrete eseguire un grand plié senza sbarra!”). Via via aggiungevamo altri esercizi: ports de bras alla sbarra coordinati con le posizioni dei piedi, delle gambe, del busto; sollevamenti e relevés, arabesques (“Flessibili come giunchi! Le linee devono essere perfette! Sorridi Valeria, anche se stai soffrendo… Santo Cielo! Quando avremo qualche risultato da quell’apparecchio per i denti?”). 

 

La testa di Lara sbuca dalla camera di sua zia e mi riscuote. Mi viene incontro. Ha la matita sbavata che le fa sembrare gli occhi due pozzi scuri.

 

-       Il dottore ha detto che è stato un arresto cardiaco. Ci fosse stato qualcuno qui con lei, chissà … La mamma è stravolta. L’ha trovata lei. Pensare che eravamo qui al piano di sotto e non ci siamo accorti di nulla – mi dice col volto deformato da un dolore che non le ho mai visto.

-       E tu, come stai?

-      Mi concentro sulle cose pratiche: ho contattato il medico per l’accertamento della morte, mi sto accordando con il babbo per organizzare il funerale. Allestiremo qui la camera ardente per la veglia … Forse non dovevi venire – mi sussurra poi dolcemente, facendomi una carezza sul pancione. La bambina fa una capriola.   

 

Entriamo in camera di Anna e lei è lì, sul letto: sembra che dorma. Il viso non è contorto, come temevo. Sembra quasi che abbia le labbra atteggiate a un sorriso ironico. Percorro con lo sguardo la sua figura, che mantiene anche in questa situazione assurda una strana compostezza. Arrivo ai suoi piedi, gli strumenti espressivi con cui ha calcato la vita: dita deformate, unghie annerite, cicatrici di ferite che ha tenuto nascoste da scarpette di seta. I risvolti negativi delle lunghe ore di allenamento. Adesso che è inerme, muta, che non può più posare il suo sguardo severo su di me, adesso la vedo. Adesso sento il suo affanno. “Non ho alcun dubbio di poterti insegnare, ma tu hai la determinazione per imparare? Devi esercitarti ogni giorno, desiderare la perfezione” mi ripeteva ogni volta, osservandomi con sguardo critico. “Non hai ancora imparato a farti uno chignon decente! Il collo e il viso devono essere scoperti.” E ancora, se non riuscivo, dopo aver provato più volte, mi diceva, asciutta, “Non puoi o non vuoi? Nella danza non puoi barare, Valeria!”. 

Come avevo potuto darle tanto potere? Lei mi soggiogava, era come una marea. Eppure adesso, guardandola, sento solo pietà e affetto. C’è qualcosa di osceno in un corpo senza vita esposto alla vista dei vivi, ci sono intimità e pudore violati. Se penso che degli estranei verranno qui, la toccheranno, la sistemeranno per l’ultimo saluto, provo uno strano dolore: lei non avrebbe voluto.  Piano, senza farmi vedere, col lenzuolo le copro i piedi deformi. Ho bisogno di sedermi. Quei dolorini di stamani si fanno sentire di nuovo.

 

-       Ti dispiace se mi sdraio un attimo sul divano? – chiedo a Lara, che mi cinge le spalle con affetto.

-    Io credo che dovresti andare a casa, Valeria. Ti accompagna Lapo in macchina. 

-     Solo un attimo … è questa pancia che diventa dura ogni tanto e mi fa impressione ... ma è normale, stai tranquilla.

 

Probabilmente i miei amici hanno ragione. Stare qui non mi fa bene, eppure non sono pronta ad andare via. Mi sdraio e chiudo gli occhi. Risento la musica, la sua voce, rivedo i miei movimenti …

Dopo aver iniziato le lezioni di danza cominciai ad andare male a scuola: avevo insegnanti esigenti che ci facevano lavorare sodo. Fu una discesa a precipizio, che non seppi frenare: convocarono i miei genitori. “Il rendimento della bambina è calato. In più appare stanca, demotivata. Cosa sta succedendo?”. A scuola ero sempre in tensione, perché sapevo benissimo di non aver studiato come avrei dovuto. Quando ero a danza cercavo di concentrarmi, ma inevitabilmente il mio sguardo correva ogni tanto all’orologio, chiedendomi come avrei potuto fare i compiti. 

Quando entrai più nel vivo della danza, le mie serate cominciarono ad essere occupate anche dalle medicazioni. Divenni esperta a curare i miei piedi da sola: vesciche, ferite e cerotti facevano parte della mia quotidianità. Una volta il babbo mi trovò intenta a disinfettarmi col mercurio cromo. Mi guardò, aggrottando la fronte. “Dove pensi di arrivare?”, mi chiese, scuotendo la testa. 

Prese i miei piedi fra le sue mani, li accarezzò, indugiò sui calli, sulle mie unghie gialle, come avesse voluto farle sparire. Quella sera parlammo a lungo, mentre la mamma mi spalmava la crema all’ossido di zinco. 

Il giorno dopo non mi mandarono a scuola. La mamma rimase con me, lasciando il babbo a cavarsela da solo in negozio. Avevamo tutti bisogno di una pausa.

Il pomeriggio andai a danza. Mi sentivo finalmente riposata e durante la lezione mantenni una concentrazione impeccabile. Gli sguardi di Anna mi riempivano di orgoglio, perché scorgevo sul suo volto sollievo e soddisfazione. Mancavano dieci minuti alla fine della lezione quando mi feci male. Volli riprovare più volte un salto che non mi riusciva bene. All’ennesima volta atterrai malamente con il piede girato verso l’interno. Sentii il dolore che mi arrivava come una stilettata fino al cervello. Anna, Lara e Lapo furono subito accanto a me, allarmati. 

“Hai rovinato tutto, Valeria. Avevi ballato così bene oggi …” gemette Anna, quando si rese conto che mi ero fatta male. Ho ancora negli occhi l’immagine della sua mascella contratta. Dopo poco non potei più camminare: il piede cominciò a gonfiare.

All’ospedale dissero che era una frattura del quinto metatarso: prognosi di sei settimane.  Poi avrei dovuto fare fisioterapia. Ipotizzarono uno stop di circa tre mesi. Fu definitivo. In quei mesi di riposo forzato riuscii finalmente a rilassarmi e a riprendere a studiare con più calma, cercando di colmare le lacune che avevo accumulato. Lapo e Lara sospesero le lezioni di danza e mi stettero accanto: venivano ogni giorno a casa mia a studiare, portando anche giochi da tavolo e DVD di vecchi film. Mi regalarono perfino il Morandini, in modo potessi documentarmi sui film visti e da vedere. La mamma preparava enormi ciotole di pop corn, fette di pane e Nutella, latte e biscotti. Passavamo anche molto tempo a chiacchierare. 

Lapo in quel periodo era strano, a volte si rabbuiava. Un giorno ci confessò con gli occhi bassi che aveva mille pensieri: si era reso conto di quanto bene volesse a un suo compagno di classe. Passò momenti difficili. A scuola cominciarono a fare battute. Un giorno, a ricreazione, due ragazzini ripresero le frecciatine. Io e Lara facemmo a botte con loro per difendere Lapo. Fummo tutti sospesi, ma da quel giorno smisero di tormentarlo.   

Nessuno di noi tornò a frequentare le lezioni di danza. “Tanto io e Lapo siamo solo stati delle comparse. Era te che voleva, non l’avevi capito?” mi disse Lara.

 

Una brava insegnante, fra le lezioni di grammatica e di letteratura, riuscì a compiere il piccolo miracolo a cui ogni bravo professore dovrebbe aspirare: oltre la conoscenza, la formazione di una coscienza. Realizzai che tutti i sacrifici che avevo fatto erano volti a guadagnare l’approvazione di Anna, per guarire dalla mia insicurezza, ma che non amavo la danza quanto lei e non ero disposta a dedicare la vita a quest’arte. A volte il talento naturale non corrisponde ai nostri interessi più profondi. E poi arrivò la vita, con la sua ingovernabilità: la scuola, gli amici, una bellezza che fioriva a poco a poco, le uscite, i ragazzi, l’università. Ogni giorno andavo qualche ora a aiutare i miei: mi portavo dietro i libri e studiavo fra un cliente e l’altro. Il babbo faceva le parole crociate nei tempi morti, diceva che gli serviva per tenere la mente allenata. Ci facevamo compagnia. A volte entrava Anna a comprare qualcosa. Scambiavamo qualche frase di circostanza in un mare di imbarazzo. Sentivo che avrebbe voluto dire di più, ma non succedeva mai. E poi, e poi il fattaccio. Due linee sullo stick. Mi riversai come un uragano da Lapo, alla bottega del suo babbo. Non dissi nulla: tirai solo fuori dalla tasca del giubbotto il test di gravidanza e glielo mostrai.   

-       Oh mamma, tesoro, come in una brutta telenovela? E ora che facciamo? – mi chiese, turbato.

Lo abbracciai, sentendo il cuore che mi batteva con sordi tonfi e mi squassava il petto, grata per avergli sentito quella partecipazione e quell’affetto semplicemente in quel verbo coniugato al plurale. Rimasi muta, a guardarlo con gli occhi sgranati.

-       E Alberto? Che ha detto?

-     È partito per il master dieci giorni fa … e considerato che a Boston adesso sono le tre di notte, forse è meglio se aspetto a chiamarlo, che dici?

-       Cazzarola, Valeria, che casino!

 

Quando telefonai ad Alberto per dirgli che aspettavamo un figlio rimase muto per un tempo interminabile. Poi il fiume ruppe gli argini, cominciò a parlare e disse troppo. Alla fine mi prospettò la soluzione più semplice per lui e la più difficile per me. Raccontai a Lapo e a Lara di quanto mi avessero ferita le parole di Alberto, di quanto si fosse accorato a spiegarmi che era tanto, tanto confuso, e che questo incidente non ci voleva, proprio ora che aveva realizzato il suo sogno di questo master a Boston.

-       Oh, poverino … - commentò Lapo, sarcastico – Pensa solo ai suoi progetti … E i tuoi sogni, invece? Forse dovresti fargli sapere che un cuoricino ce l’hai anche tu, tesoro.

 

Credo che all’ospedale non abbiano capito nulla, perché la mia bambina nascerà oggi. Lo so, anche se è la mia prima figlia. Chiamo Lara, che accorre subito.


 

-      -              Mi sa che mi si sono rotte le acque, Lara. Adesso mi alzo da questo divano e temo che ti farò una pozza in terra …

 

Lo sguardo di Lara si allarga.

 

-       -       Lapo, vieni subito! Andiamo in ospedale! Valeria partorisce!

 

Siamo in macchina, diretti all’ospedale. Lapo guida, assorto. Lara è dietro, insieme a me e mi tiene la mano. 

 

-       Dovrebbe esserci Alberto in questo momento. Oggi nasce sua figlia e quell’infame dov’è?

-       Lapo, per favore, non è il momento. Lasciala tranquilla.

-       Sono tranquilla ragazzi. Ho avuto nove mesi per tranquillizzarmi. Quanto ad Alberto, staremo a vedere … ha detto che, in qualche modo, lui ci sarà … anche se ancora non sa bene come …

-       Non importa tesoro, perché noi ci saremo sempre invece, e da subito – mi rassicura Lapo, guardandomi dallo specchietto retrovisore. 

-       Mi dispiace che hai dovuto chiudere il negozio per me, Lapo.

-       Figurati! Le zucchine si venderanno anche domani. E poi volevo già chiudere per la morte di Anna, in segno di rispetto. Ma è più bellino scrivere chiuso per lieto evento, no? 

 

Al primo semaforo rosso Lapo si gira verso di me e pianta i suoi occhi dentro i miei.

 

-       Sai che si fa se quel demente di Alberto non si prende le sue responsabilità? Ti aiutiamo noi a crescere la bambina e, se non ti innamori più di nessuno, ci si sposa io e te. Che dici? Ricorda: la bambina cresce, un cattivo marito rimane. Se non ti vuole, che se ne vada al diavolo. Ti prendo io che ti voglio un mondo di bene, anche se non in quel modo lì. 

-       Lapo, magari tu sposerai Michele, prima o poi.

-       Figurati! Quel pusillanime! Ancora non ha detto nulla ai suoi. Mi aveva promesso che me li avrebbe presentati per il suo compleanno e ha ringambato. L’ennesima volta! 

-       Magari gli serve solo un po’ di tempo … forse lui non ha avuto due amiche che hanno fatto a botte per lui!

A Lapo scappa un sorriso.

-       Maremma, Lara, ti ricordi che labbrata gli tirò la Valeria a quell’imbecille? Gli lasciò l’impronta delle sue manine secche su quel faccione! 

Abbiamo tutti un attacco di ridarella a ricordare quei momenti. Eppure a quel tempo facevano male. Con un animo un po’ più leggero arriviamo in ospedale.

 

In sala parto è entrata Lara con me, a farmi forza e a darmi coraggio per resistere a dei dolori sconosciuti. Quando Agata è scivolata fuori da me e me l’hanno appoggiata sulla pancia abbiamo riso e pianto insieme.

Adesso siamo qui in reparto, io e la mia piccina: me la tengo sulla pancia col capino sotto il mio mento. Un figlio può essere solo una scoperta. Penso a questo mentre affondo il naso nell’incavo fra il collo e il viso della mia bambina. Le sento addosso un odore irresistibile di biscotto.

Il babbo, che mi ha raggiunto dopo aver chiuso il negozio, fa le parole crociate, seduto accanto al letto.

 

-        Senti Valeria, due orizzontale: “Così è il vivere privo di rischi”. Sono sei lettere, la terza è una i, la sesta una o.

Ci penso un po’. 

-       Noioso, dico convinta

Aggrotta la fronte e ci rimugina.

-       Dici? Noioso? Mah … Ci starebbe in effetti, gli incroci tornano … - sospira e addrizza le spalle. A volte anche un cruciverba riesce a darci un tocco di ottimismo. Ai miei questa situazione sembra enorme, ma non lo dicono.

– Ora devo andare, Valeria, vado a vedere come sta la mamma. Guarda se la sciatica doveva farsi sentire proprio in questi giorni … faccio una foto alla bambina e vado. Era così dispiaciuta di non poter venire che le veniva da piangere.

-       Dalle un bacio. Vedrai che mi mandano via domani. La vedrà a casa!

Solo quando è uscito mi accorgo che ha lasciato le parole crociate sul tavolino. Agata dorme e la metto nella cullina trasparente accanto al mio letto. Guardo il cruciverba. Mancano poche parole per finirlo, ma continuo a non trovare le risposte giuste ad alcune definizioni. Alla fine decido di barare e di andare a vedere le soluzioni in fondo al giornalino. Ecco perché non riesco a finirlo! Il vivere privo di rischi non è noioso, ma quieto. Mi viene da ridere e scuoto la testa. Non cambierò quello che ha scritto il babbo, mi dico. Torno al cruciverba e inserisco delle lettere a caso negli spazi bianchi, tanto lui non se ne accorgerà. Lo vedrà completato e passerà oltre. Tutti noi passeremo oltre: abbiamo sempre più coraggio di vivere di quel che crediamo.  


Testo di Daniela Darone

Foto di Cottonbro studio, da Pexels

martedì 5 marzo 2024

"Voi lo sapete cos’è la felicità?", di Daniela Darone




- Sei sicura di volerla vedere, Valeria? E se poi rimani turbata e ti partono le doglie? Mica ci vorrai scodellare la bambina qui!

- Macché, Lapo, dai! Sono stata stamani al controllo: avevo dei dolorini e pensavo fossero contrazioni, invece mi hanno visitata e rimandata a casa. Piuttosto, Lara come sta?

- Scossa, ma energica come sempre. Poi, lavorando in ospedale, un po’ ci è abituata.

- Beh, non è proprio la stessa cosa. Qui si parla di sua zia e di tutto quello che abbiamo vissuto con lei …

- Si, lo so. Forse era meglio aver passato meno ore in questa casa, specialmente tu … che c’è? Non guardarmi così! Ora solo perché è morta ne vogliamo fare una santa? – mi bisbiglia, accigliato.

Allungo lo sguardo verso la camera di Anna. Quando era la mia insegnante di ballo la chiamavo signora, ma fra noi l’abbiamo sempre chiamata per nome.

Io, Lapo e Lara eravamo sempre insieme, attaccati come le botteghe dei nostri genitori su Via Bixio. Ciondolavamo sempre fra l’oratorio, dove il sabato pomeriggio il prete organizzava il cineforum, e i negozi dei nostri genitori, che erano giusto a pochi passi. Io ero la figlia del fornaio, dove i miei amici venivano a fare la merenda, attirati dall’odore della schiacciata fumante del babbo; Lara era la figlia dell’artigiana che realizzava bellissimi paralumi con stoffe e pergamene e nel cui laboratorio spesso ci trovavamo a disegnare, e infine c'era Lapo, il figlio dell’ortolano, che d’estate ci allungava manciate di ciliegie i cui noccioli diventavano munizioni per le nostre cerbottane.

Questa vita beata durò fino a che non tornò Anna, la zia di Lara, figura fino ad allora mitica, ma che non avevo mai incontrato: sapevo che aveva studiato alla scuola di ballo del Teatro alla Scala e che, una volta diplomata, era partita in tournée in giro per il mondo con una compagnia straniera. Lara ogni tanto ci mostrava delle fotografie e delle cartoline che le spediva la zia: ne eravamo affascinati e incuriositi, era un mondo così diverso dal nostro!

Anna tornò all’improvviso: notammo un gran via vai di operai nella villetta bifamiliare davanti alla scuola, dove viveva Lara. Ci spiegò che sua zia stava ristrutturando il suo appartamento per trasformarlo in una scuola di danza.

- Ma come? Non si esibisce più nei teatri di tutto il mondo? – le chiesi, stupita.

- La zia non può più ballare per qualcosa che ha ai piedi, ma non se ne può parlare perché altrimenti si mette a piangere.

Io passavo tutta la ricreazione col naso appiccicato ai vetri della finestra dell’aula, per cercare di vedere questa zia famosa, ma non ci riuscii mai, fino alla nevicata del 17 dicembre 2010, che rese Firenze e il mio piccolo mondo un paesaggio surreale. Caddero trenta centimetri di neve. Tornando da scuola camminammo in mezzo a Via Bixio, guardandoci intorno estasiati: la via di solito così trafficata era diventata improvvisamente una strada bianca, solitaria e soffice. Io, Lapo e Lara facemmo un enorme pupazzo di neve, prendendo in giro i grandi che avevano borbottato “tanto non attacca”, e facemmo a pallate. Fu quel giorno che la vidi. Entrò in negozio dai miei per comprare del pane. Aveva un cappotto bianco, sagomato, che le evidenziava il punto vita, con vistosi bottoni gioiello e un basco, anch’esso bianco, dal quale spuntavano lunghi capelli castani, raccolti in una coda bassa. Pensai che fosse bellissima. Forse sentendosi osservata distolse gli occhi dalle tante qualità di pane che le stava mostrando la mamma e li posò su di me, che stavo facendo i compiti a un lato del bancone. I suoi occhi grigi mi studiarono per un lungo istante, prima di concentrarsi di nuovo sulla mamma.

“Sua figlia ha un fisico da ballerina”, le disse, “perché non la manda da me? Anche Lara inizierà a prendere lezioni: mia sorella ha detto che in laboratorio adesso è troppo freddo per la bambina. Potrebbero venire insieme. Ci pensi”. Pagò e uscì. Feci il viso rosso e riabbassai gli occhi sul quaderno, sentendomi speciale.

A quel tempo ero magra magra, portavo l’apparecchio per i denti ed ero l’unica che non piaceva a nessun bambino di classe. A scuola non andavo né bene né male, ero timida e mi vergognavo da morire per i vestiti di seconda mano che mi passava mio cugino e che i miei mi costringevano a indossare. In più il mio cognome, Malfatta, sul quale i miei compagni non mancavano di fare battute, sembrava sottolineare crudelmente le mie mancanze. La signora Anna invece, con le sue parole, aveva dato un nuovo significato al mio corpo: non ero uno stecco, avevo un fisico da ballerina. La medaglia aveva mostrato il suo rovescio più bello.


continua ...


Testo di Daniela Darone - Foto di Norma Mortenson da Pexels