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martedì 5 marzo 2024

"Voi lo sapete cos’è la felicità?", di Daniela Darone




- Sei sicura di volerla vedere, Valeria? E se poi rimani turbata e ti partono le doglie? Mica ci vorrai scodellare la bambina qui!

- Macché, Lapo, dai! Sono stata stamani al controllo: avevo dei dolorini e pensavo fossero contrazioni, invece mi hanno visitata e rimandata a casa. Piuttosto, Lara come sta?

- Scossa, ma energica come sempre. Poi, lavorando in ospedale, un po’ ci è abituata.

- Beh, non è proprio la stessa cosa. Qui si parla di sua zia e di tutto quello che abbiamo vissuto con lei …

- Si, lo so. Forse era meglio aver passato meno ore in questa casa, specialmente tu … che c’è? Non guardarmi così! Ora solo perché è morta ne vogliamo fare una santa? – mi bisbiglia, accigliato.

Allungo lo sguardo verso la camera di Anna. Quando era la mia insegnante di ballo la chiamavo signora, ma fra noi l’abbiamo sempre chiamata per nome.

Io, Lapo e Lara eravamo sempre insieme, attaccati come le botteghe dei nostri genitori su Via Bixio. Ciondolavamo sempre fra l’oratorio, dove il sabato pomeriggio il prete organizzava il cineforum, e i negozi dei nostri genitori, che erano giusto a pochi passi. Io ero la figlia del fornaio, dove i miei amici venivano a fare la merenda, attirati dall’odore della schiacciata fumante del babbo; Lara era la figlia dell’artigiana che realizzava bellissimi paralumi con stoffe e pergamene e nel cui laboratorio spesso ci trovavamo a disegnare, e infine c'era Lapo, il figlio dell’ortolano, che d’estate ci allungava manciate di ciliegie i cui noccioli diventavano munizioni per le nostre cerbottane.

Questa vita beata durò fino a che non tornò Anna, la zia di Lara, figura fino ad allora mitica, ma che non avevo mai incontrato: sapevo che aveva studiato alla scuola di ballo del Teatro alla Scala e che, una volta diplomata, era partita in tournée in giro per il mondo con una compagnia straniera. Lara ogni tanto ci mostrava delle fotografie e delle cartoline che le spediva la zia: ne eravamo affascinati e incuriositi, era un mondo così diverso dal nostro!

Anna tornò all’improvviso: notammo un gran via vai di operai nella villetta bifamiliare davanti alla scuola, dove viveva Lara. Ci spiegò che sua zia stava ristrutturando il suo appartamento per trasformarlo in una scuola di danza.

- Ma come? Non si esibisce più nei teatri di tutto il mondo? – le chiesi, stupita.

- La zia non può più ballare per qualcosa che ha ai piedi, ma non se ne può parlare perché altrimenti si mette a piangere.

Io passavo tutta la ricreazione col naso appiccicato ai vetri della finestra dell’aula, per cercare di vedere questa zia famosa, ma non ci riuscii mai, fino alla nevicata del 17 dicembre 2010, che rese Firenze e il mio piccolo mondo un paesaggio surreale. Caddero trenta centimetri di neve. Tornando da scuola camminammo in mezzo a Via Bixio, guardandoci intorno estasiati: la via di solito così trafficata era diventata improvvisamente una strada bianca, solitaria e soffice. Io, Lapo e Lara facemmo un enorme pupazzo di neve, prendendo in giro i grandi che avevano borbottato “tanto non attacca”, e facemmo a pallate. Fu quel giorno che la vidi. Entrò in negozio dai miei per comprare del pane. Aveva un cappotto bianco, sagomato, che le evidenziava il punto vita, con vistosi bottoni gioiello e un basco, anch’esso bianco, dal quale spuntavano lunghi capelli castani, raccolti in una coda bassa. Pensai che fosse bellissima. Forse sentendosi osservata distolse gli occhi dalle tante qualità di pane che le stava mostrando la mamma e li posò su di me, che stavo facendo i compiti a un lato del bancone. I suoi occhi grigi mi studiarono per un lungo istante, prima di concentrarsi di nuovo sulla mamma.

“Sua figlia ha un fisico da ballerina”, le disse, “perché non la manda da me? Anche Lara inizierà a prendere lezioni: mia sorella ha detto che in laboratorio adesso è troppo freddo per la bambina. Potrebbero venire insieme. Ci pensi”. Pagò e uscì. Feci il viso rosso e riabbassai gli occhi sul quaderno, sentendomi speciale.

A quel tempo ero magra magra, portavo l’apparecchio per i denti ed ero l’unica che non piaceva a nessun bambino di classe. A scuola non andavo né bene né male, ero timida e mi vergognavo da morire per i vestiti di seconda mano che mi passava mio cugino e che i miei mi costringevano a indossare. In più il mio cognome, Malfatta, sul quale i miei compagni non mancavano di fare battute, sembrava sottolineare crudelmente le mie mancanze. La signora Anna invece, con le sue parole, aveva dato un nuovo significato al mio corpo: non ero uno stecco, avevo un fisico da ballerina. La medaglia aveva mostrato il suo rovescio più bello.


continua ...


Testo di Daniela Darone - Foto di Norma Mortenson da Pexels

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