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martedì 17 novembre 2015

"Antonio. Punto e a capo!" - quindicesimo capitolo


IL SEGRETO DI STEFANO

 
- Antonio! Hai visto che ore sono? Farai tardi ad atletica se non ti sbrighi … lo sai quanto è severo il mister sulla puntualità!

- Uhm … oggi non ci vado, mamma.

- Stai male? –mi chiede aggrottando la fronte preoccupata.

- No.

- E allora? Come mai non vai?

- Non mi va.

- Come non ti va? Ma se prima ci andavi anche con il raffreddore!

- Uffa quante storie! Non mi va e basta! Mica è obbligatorio! – ho risposto quasi urlando.

- Calmo eh? - interviene il babbo severamente, che per l’appunto è a casa con l’influenza – ti sembra il modo di rispondere alla mamma? Fra una storia e un'altra è più di un mese che ci vai una volta sì e tre no …. Credevamo ti piacesse fare atletica. Hai vinto sempre nelle ultime gare!

- Appunto … magari è proprio per quello – rispondo svogliato.

- Che vuoi dire?

- Non lo so.

- Certe volte, Antonio, non è facile parlare con te – risponde il babbo scuotendo la testa in segno di sconforto - bisogna tirarti fuori le parole di bocca con il cavatappi. Nessun problema se non ci vuoi andare, solo sembri un po’ demotivato e strano.

- Sono stanco

- Problemi?

- Sì, troppi: di matematica – rispondo eludendo la domanda, e il babbo alza gli occhi al cielo spazientito.

- Però sono migliorato con l’aiuto di Stefano, vero? Quasi quasi faccio un salto da lui per controllare i compiti per domani.

- Chiamalo prima, potrebbe essere uscito – interviene la mamma, deponendo per il momento le armi.

- Sì, figuriamoci! Per andare dove? Lui non ha amici. Studia sempre. E’ per questo che è il migliore della classe.

- Dove vai con il giubbotto Antonio? Vengo anch’io con te? Oggi il cappello, però, non me lo metto – mi fa Clotilde raggiungendomi alla porta di casa e porgendomi il suo giubbottino.

- No Clo. Vado solo io fuori. Tu stai in casa. Sei malata.

- Non ce l’ho più la febbre. Voglio venire con te.

- Ma io vado da un mio amico, a studiare.

Lei allora fa la faccetta triste e così la prendo in braccio, dondolando pericolosamente: in fin dei conti sono più di quindici chili di bambina!

- Ti prometto che torno presto … e dopo giochiamo! E mentre sono fuori non fare più a pezzi i miei giornalini, va bene? - le sussurro.

- Va bene - mi fa sgranando gli occhioni con un guizzo impertinente – uno sì, però … ritaglio quello vecchio!

 

Volo giù per le scale a rotta di collo, come dice la nonna Dibra. In un attimo sono in strada e, non so perché, mi viene spontaneo respirare a pieni polmoni. Aria di libertà. Non per niente, ma a volte non hai voglia di star lì a scandagliare tutto quello che senti. Però i miei hanno ragione. Ultimamente ad atletica vado davvero forte, eppure sembra che non me ne importi più niente. Anche mentre gareggio, non sento più l’adrenalina di un tempo. E pensare che il mister l’altro giorno mi ha pure fatto i complimenti. “Bravo Antonio. Sei finalmente riuscito a lasciar fuori quell’ansia che t’impediva di dare il meglio. Adesso, quando gareggi, sembri un professionista: lucido, concentrato. Sei cresciuto, ragazzo” – ha concluso con aria soddisfatta. Sì, concentrato sì, ma distaccato. La testa è lì, ma il cuore è da un’altra parte. Solo non so dove. Non è vero che ho lasciato fuori la parte emotiva di me, è solo che lo spazio per la parte emotiva … non c’è più. E non so perché. Eppure un tempo mi piaceva. Magari è tutta colpa di quello che è successo con Gennaro, penso mentre continuo a prendere a calci il solito sasso che mi sto portando dietro da un po’.

Eccoci qui. Casa di Stefano. Passare da questa strada rende il tragitto più lungo, ma più sicuro: mica ho voglia di fare di nuovo brutti incontri davanti alle scuole medie. Quei tipi potrebbero essere lì anche stasera e di riprenderle non ne ho punta voglia.

- Chi è? – mi fa una voce da dietro la siepe.

- Buonasera. Sono Antonio, un amico di Stefano.

- Stefano non c’è.

- Ah … - rispondo un po’ deluso.

- Vuoi entrare comunque? – mi fa la voce. E intanto fa capolino dall’inferriata anche il viso di un uomo con un gran cappello in testa, che tiene in mano una sega circolare

– Sono il giardiniere, Narciso …

- Basso e indeciso – penso, senza osare pronunciare quella che mi pare la spiritosaggine del secolo – beh, il suo nome calza a pennello col suo lavoro …

- Direi di sì – fa lui, con la faccia di chi è abituato a sentirsi dire certe cose - Allora che fai? Entri o no?

- No, grazie. Volevo solo riguardare il problema di matematica per domani.

- Beh, allora puoi raggiungerlo in biblioteca. Va sempre lì a studiare dopo che ha fatto la sua ora di lettura. Fra una mezz’ora dovresti trovarlo.

- Che ora di lettura?

Per tutta risposta si è limitato ad alzare le spalle arrovesciando in giù la bocca, come a dire che non sapeva altro. Veramente avevo il permesso di andare solo a casa di Stefano e non di andarmene a girellare da solo allegramente. Ma dato che la biblioteca non era molto lontana da lì, ho deciso che un salto avrei anche potuto farcelo. La strada la conosco bene, perché è vicina alla mia scuola e poi perché ci sono stato tante volte con la mamma e Clotilde.

 

La biblioteca è in un bel palazzo, dove ci sono anche un sacco di uffici, la succursale del liceo linguistico e un istituto per non vedenti. Mentre camminavo nei corridoi che portano alla biblioteca, sono passato davanti ad una porta, dove ho sentito la voce di un ragazzino che leggeva ad alta voce. Mi sono soffermato un attimo, perché leggeva davvero bene, caratterizzando le voci dei personaggi. Mi sono domandato cosa mai potesse esserci dietro quella porta, così ho tirato su la testa e ho letto la targhetta in ottone:


IL LIBRO RECITATO
 
 

 

 


Dato che non passava nessuno, sono rimasto lì dietro ancora un po’, ad ascoltare, e via via che la voce leggeva, mi pareva sempre più di riconoscerla come quella di Stefano. Così non ho saputo resistere: ho abbassato la maniglia piano piano, con circospezione, e sono entrato. Stefano era in piedi nella stanza, ma non poteva vedermi, perché era di schiena. Un uomo che sedeva dietro un banco mi ha fatto segno di rimanere in silenzio. Io mi sono seduto per terra, con la schiena contro il muro, abbracciandomi le gambe. Stefano era senza maglione, con la camicia con le maniche arrotolate e, mentre leggeva, non poteva fare a meno di gesticolare, come stesse recitando in teatro. Nella stanza, sul lato opposto, c’erano tre ragazzi e una ragazza, che ascoltavano come me, seduti su delle sedie, a occhi chiusi e in vari punti si sganasciavano talmente tanto dalle risate da coprire quasi la voce di Stefano.

Quando ha finito di leggere il capitolo, ha fatto un cenno all’uomo dietro il banco, così quello si è affrettato a dire:

– Ok ragazzi, tempo scaduto … torniamo in classe e ringraziamo come sempre il nostro amico.

A quel punto si è alzato un coro di proteste.

“No, ma come?” “ E’ già passata un’ora? Non si può fare un altro pochino?” “Dai, magari solo qualche altra pagina …”

- Niente da fare ragazzi. Purtroppo dobbiamo andare ed anche Stefano ha i suoi compiti per domani, no?

- Beh, sì, però se volete …

- Ci piacerebbe, ma non possiamo. Alla prossima settimana, Stefano.

Così si sono alzati e ognuno di loro ha preso un bastone bianco e solo allora ho capito che quei ragazzi non vedevano. Guidati dalla voce di Stefano, che stava ancora scambiando qualche battuta con quel signore, gli si sono fatti tutti intorno per dargli chi una pacca sulla schiena, una stretta al braccio, una carezza sul viso. Ognuno di loro l’ha toccato salutandolo.

- Credo ci sia un amico per te – gli ha fatto uno mentre usciva e mi passava accanto – è entrato prima, mentre leggevi ….

Così Stefano si è finalmente voltato ed è rimasto a guardarmi fra il sorpreso e l’infastidito. Ha afferrato il suo golf e il suo zaino e mi ha strattonato fuori.

- Che vuoi? – mi ha apostrofato non appena siamo usciti – mi stai spiando?

- Ma che spiando! Ero solo venuto a cercarti e sono passato da qui … ho sentito la tua voce e sono entrato a vedere. Sei forte a leggere! Sembri un attore! Ma perché non mi avevi detto niente? Per quei ragazzi sei un mito! – gli ho detto con entusiasmo.

- Appunto – ha risposto lui, asciutto.

- Che vuoi dire?

Per tutta risposta ha fatto spallucce e dopo, mentre si risistemava un po’, ha proseguito - Dai, non importa … è solo che mi scoccia. Questa è una cosa mia, capisci? Questo sarebbe proprio come dovrebbe essere se solo …

Ho fatto un movimento con la testa per invitarlo a continuare.

- … se solo non fossi così brutto e … unto!

Questo è il classico caso in cui in teoria dovresti dire qualcosa d’incoraggiante, ma sai già che le tue parole non uscirebbero convincenti. In fondo Stefano è davvero unto e insomma, non proprio bello, ecco. Così sono rimasto zitto.

- Che incoraggiamento! Grazie davvero! Il tuo mutismo dimostra solo che ho ragione - ha fatto lui sarcastico.

- Beh, che ti devo dire … mamma dice che il tuo non è unto: è sebo … prima o poi se ne andrà, basta crescere.

- Non mi preoccupa il prima o poi, mi preoccupa il “frattempo”.

- Nel frattempo sei intelligente … e simpatico … anche se non molti se ne accorgono in classe, perché stai sempre sulle tue – mentre parlo, gli rivolgo una sbirciatina di sottecchi per vedere come la sta prendendo, ma le parole ormai mi escono da sole, senza che possa fermarle - e poi sei così bravo che gli altri si sentono un po’ inferiori, e se la prendono con te …

- Fantastico!

- Invece questi ragazzi qui sono diversi: loro ti vogliono bene. Si capisce, perché tu sei completamente aperto verso di loro, sei solo quello che sei.

- Il punto è che loro non mi vedono… e quindi non mi giudicano per i miei capelli unti, ma solo per quello che sentono, per quello che credono che io sia. Sai che direbbe il mio babbo? Il loro giudizio non è viziato dal mio aspetto.

All’improvviso, senza rendermene conto, solo parlando, ho capito che quei ragazzi del libro parlato avrebbero amato in modo uguale Stefano, anche se avessero potuto vederlo, e che era il giudizio di Stefano a essere viziato, per dirla come l’avrebbe detta il principe rospo … beh, senza offesa, s’intende. Il problema non erano solo i suoi capelli unti, ma anche il suo atteggiamento in classe. Era vero che suggeriva, che faceva copiare i compiti, e che nonostante tutto continuavano a chiamarlo “untore”, ma era vero anche che lui non era mai spontaneo in classe come l’avevo visto poco prima con quei ragazzi, che per paura di essere rifiutato non si mischiava mai a noi nell’intervallo. Certo, era colpa anche nostra, e avrebbe dovuto avere un gran fegato per riderci su con noi quando qualcuno faceva battute su di lui. Però averlo visto prima mi aveva fatto fare un bang nella testa: prima sembrava un altro. Il suo atteggiamento, la sua voce, anche il modo di stare in piedi e di gesticolare faceva capire che era davvero un tipo tosto e che se si fosse mostrato così anche a scuola, avrebbero smesso di dargli noia.

- Oh! Ti sei addormentato?

- No … sai, pensavo che magari è colpa tua se a scuola non sei popolare. E’ la tua testa per prima che devi cambiare … devi solo farti conoscere, ecco. Così come ora ti conosco io.  

- Ora alla fine stai a vedere che è colpa mia! Certo che sei proprio forte! Come se non sapessi che Tommaso fa circolare in classe i suoi fumetti: “le mirabolanti avventure dell’Untore e Scordinello” ... li hai letti pure tu, credi non lo sappia?

- Già. E ti dico pure una cosa: sono divertenti. Perché Tommaso disegna benissimo e ti ha fatto un costume da eroe niente male … perché in quei fumetti, sarai pure l’untore, ma sei un personaggio positivo. E se li avessi letti anche tu, come li ha letti Scordinello, ops ... Marco intendo, ti saresti divertito! Qui sta la differenza: Marco ci ha riso su e anche se lo chiamano con quel soprannome, tutti lo ammirano comunque, perché quando gioca a basket sembra che voli quando va a canestro … solo che mentre cammina normalmente sembra scoordinato. E’ un difetto, ma solo perché è molto alto e magro e credo ancora non abbia trovato dove mettere quel chilometro di gambe che si ritrova. Scusa se non te l’ho detto prima, ma ci ho pensato solo ora. E’ stato un flash. Ciao.

E’ solo quando sto per uscire dall’edificio, nell’atrio grande del portiere, che sento che Stefano mi richiama.

- Antonio! Ma dove vai? E poi, perché sei venuto a cercarmi?

- Lascia perdere Stefano, bisogna che scappi: è tardi. – rispondo senza voltarmi - E quel ”bisogna che” mi segue fino a casa, martellandomi nella testa e ricordandomi la tipica espressione che usa Gennaro. Ma perché mi sarà venuto in mente?

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